L’ultimo a dirlo è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi: “Stiamo lavorando perché lo smaltimento sia in Italia”. Prima di lui era stato il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti. E a tifare era stata anche Confindustria: “Il porto di Genova e le aziende che vi operano sono sicuramente in grado di soddisfare questi requisiti”. Tuttavia la decisione sulla destinazione finale del relitto della Concordia, come ha precisato in una recente audizione in commissione Ambiente alla Camera il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli, spetta esclusivamente a Costa Crociere e ai suoi assicuratori. Restano aperte diverse porte, ma è lo stesso Gabrielli a fare chiarezza e a rivelare che sono ormai soltanto due le ipotesi rimaste sul tavolo, ovvero Genova e la Turchia. Moltissimi erano stati, per evidenti ragioni di opportunità politico-elettorale più che per una reale competenza in materia di demolizioni navali, i porti italiani che si erano candidati a ricevere ciò che resta della Costa Concordia, allettati dall’ipotetico valore di questo lavoro. Com’era facilmente prevedibile, però, la maggior parte di queste offerte improvvisate si è poi sgretolata alla prova dei fatti, mentre alcune – più ragionevoli delle altre – si sono comunque dimostrate inadeguate. E la Turchia, ora, sembra l’opzione più probabile, anche perché – a differenza di quello che dicono molti politici – nessun regolamento comunitario impone ciò e per di più da sempre tutti gli armatori italiani compreso lo Stato (con i vecchi mezzi delle flotte Eni e Tirrenia e con le unità della Marina Militare), hanno sempre mandato le loro navi all’estero: Turchia, Cina, India, Bangladesh.
Le opzioni scartate: Palermo, Civitavecchia, Piombino
In commissione Ambiente, Gabrielli ha rivelato che Palermo si è ritirata – il bacino di carenaggio dello stabilimento Fincantieri sarà occupato per diverso tempo dalle navi della compagnia Msc Crociere, sottoposte ad un programma di ristrutturazione –, anche se in una nota l’Autorità portuale di Palermo ha “smentito categoricamente”.
Civitavecchia invece aveva proposto una cifra vicina ai 200 milioni di euro, che il capo della Protezione Civile ha definito “fuori mercato”. Tra le destinazioni inizialmente più gettonate c’era Piombino: lo scalo toscano, pur non disponendo delle strutture adatte (fondali e banchine in grado di accogliere il relitto), è il più vicino all’Isola del Giglio e gode dell’incondizionato e sbandierato sostegno del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Proprio con l’obiettivo dichiarato di rilanciare il porto e di prepararlo all’eventuale arrivo del relitto lo stesso Rossi, nominato Commissario Straordinario per i lavori di adeguamento dello scalo, era riuscito a far stanziare dal Governo – nel giugno 2013 – 111 milioni di fondi pubblici per interventi infrastrutturali, tra cui l’allungamento delle banchine e l’escavo dei fondali per poter ricevere la Concordia.
La speranza di Genova
Una corsa contro il tempo, finanziata con soldi della collettività, che tuttavia sembra non essere stata sufficiente poiché, secondo quanto riferito da Gabrielli alla Camera, Piombino non dispone di un bacino di carenaggio, necessario per tirare in secca il relitto e procedere alla bonifica delle acque in putrefazione contenute nello scafo. Resta l’opzione genovese: il porto della Lanterna (dove peraltro Costa Crociere ha la sua sede, pur facendo ormai parte da molti anni del gruppo americano Carnival) dispone di spazi adeguati e di fondali sufficientemente profondi per consentire l’accesso alla Concordia, su cui lavorerebbero le aziende locali San Giorgio del Porto e T. Mariotti, due dei principali cantieri di riparazione navale di tutto il Mediterraneo, in partnership con la società pubblica Saipem (gruppo Eni). Un’offerta concreta e basata sull’esperienza di operatori storicamente attivi nel settore, che dovrebbe costare circa 100 milioni di euro.
La Turchia in pole position
Cifra più abbordabile rispetto ai 200 milioni prospettati da Civitavecchia, ma ben lontana dai 40 milioni di dollari che il numero uno della Protezione Civile ha stimato come costo complessivo dell’offerta turca. Ad Aliaga, cittadina costiera nella provincia turca di Smirne, esiste ormai da molti anni un distretto industriale delle demolizioni navali, costituito da una fitta rete di cantieri specializzati. Non è stato reso noto quale di queste aziende navalmeccaniche si sia proposta per demolire la Concordia, ma Gabrielli ha parlato di un’offerta di 40 milioni di dollari che comprenderebbe anche il trasporto del relitto dal Giglio ad Aliaga, a bordo della piattaforma semisommergibile Vanguard.
Facendo qualche rapido calcolo si capisce immediatamente che – come avviene abitualmente per le demolizioni navali – in realtà il cantiere turco non chiede niente per smaltire il relitto: era noto da tempo, infatti, che il noleggio della Vanguard (di proprietà della compagnia marittima olandese Dockwise) da parte di Costa Crociere avrebbe avuto un costo di 30 milioni di euro, ovvero circa 40 milioni di dollari. Il cantiere otterrà poi il suo profitto, come fanno tutte le società di demolizione navale, dalla vendita e dal riciclo del rottame.
Per questo motivo Gabrielli ha preavvisato i parlamentari in audizione dicendo che non ci sarebbe niente di cui stupirsi se alla fine Costa e i suoi assicuratori decidessero di mandare il relitto proprio in Turchia, cosa che d’altra parte gli armatori italiani fanno abitualmente, Stato compreso. E’ Aliaga, infatti, la destinazione finale delle unità della Marina Militare, una volta terminato il loro ciclo vitale, e sempre sulle spiagge della Turchia sono finite, nel corso degli anni, la vecchie navi di Tirrenia. Anche l’Eni nel 2012 vendette a demolitori turchi due delle sue più datate navi gasiere, la Lng Palma e la Lng Elba.
La demolizione low cost sulle spiagge di India, Cina e Bangladesh
In quell’occasione la corporation di San Donato aveva spiegato di aver optato per la Turchia – non si demoliscono più navi in Italia da oltre 25 anni, come lo stesso Gabrielli ha dichiarato in audizione – perché, pur consentendo un minor ricavo per la compagnia armatrice rispetto a India e Bangladesh, il paese mediorientale garantiva un maggior rispetto di standard ambientali e di sicurezza. La prassi comune per gli armatori privati è quella di vendere (ricavando un profitto) la navi più datate a società asiatiche che, cambiando nome e bandiera, poi provvedono alla demolizione sulle spiagge di Cina, India e Bangladesh in strutture che non rispettano nessun parametro di sicurezza: solo nel 2013 – secondo la ong Shipbraking Platform – sono state ben 645 la navi che hanno fatto questa fine.
“L’aiutino” delle (carenti) norme Ue
Tra esse un discreto numero apparteneva ad armatori italiani, compresa la compagnia di trasporto container Msc – dell’imprenditore sorrentino trapiantato a Ginevra Gianluigi Aponte – e tre vecchi traghetti di Tirrenia: Clodia, Nomentana e Flaminia, tutti spiaggiati in Asia per essere poi smantellati dei operai del posto, spesso minorenni, a mani nude e senza protezioni. A breve questa prassi potrebbe essere vietata da un nuovo regolamento europeo, che tuttavia, a differenza di quanto più volte dichiarato dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi – secondo il quale l’Ue imporrebbe la demolizione di navi europee in territorio comunitario – non pone alcun vincolo geografico.
Lo scorso ottobre 2013 il Parlamento di Strasburgo ha effettivamente approvato un nuovo regolamento europeo sulle demolizioni navali stabilendo che lo smantellamento delle navi europee debba avvenire soltanto in cantieri le cui performance in materia di sicurezza del lavoro e tutela dell’ambiente siano certificate dalla Commissione, con l’iscrizione in un apposito registro. “Questo non è un attacco contro l’India, il Bangladesh o il Pakistan, paesi che attualmente praticano l’arenamento – aveva infatti commentato l’eurodeputato tedesco Carl Schlyter, relatore del provvedimento in occasione del voto di Strasburgo – ma contro la stessa pratica di spiaggiamento, pericolosa e altamente inquinante. Il nostro obbiettivo è incoraggiare questi Paesi a compiere i necessari investimenti per impianti di riciclaggio adeguati, sopratutto a vantaggio di posti di lavoro sicuri ed ecocompatibili per i propri cittadini”.