L’inverno caldo e la crisi economica dell’Europa hanno finito con il piallare i risultati di bilancio di Eni. Nonostante alcune cessioni e la rinegoziazione favorevole di contratti con Statoil, la trimestrale presentata dal Cane a sei zampe vede una serie di segni meno. I ricavi passano, nello stesso periodo, da 31,7 miliardi a 29,2 e l’utile operativo è calato del 6,8%, mentre quello netto circa del 15 per cento. Le batoste sono arrivate dalla divisione esplorazione e produzione e soprattutto, con un -66,4%, da quella Refining & Marketing, che dipendente direttamente dallo sgretolarsi del mercato dei prodotti raffinati e dalla domanda di carburanti in picchiata da ormai diversi anni.
Senza contare che la quota di mercato Eni in Italia ha lasciato sul terreno quasi tre punti (da 29,15 a 26,2) ed è costretta a fare i conti con una contrazione delle vendite che viaggia intorno al 12 per cento. A bilanciare la situazione è stata la divisione Gas&Power, che è passata da una perdita operativa di 211 milioni di euro nel primo trimestre 2013 a un utile operativo di 241 milioni nei primi tre mesi di quest’anno. A far sorridere i conti è stata appunto una rinegoziazione di un contratto di gas proveniente dalla Norvegia che ha fornito un effetto retroattivo rispetto all’anno termico.
Paolo Scaroni, commentando i risultati poco prima di lasciare l’incarico a Claudio Descalzi, già suo vice, ha detto che “in un mercato difficile la società ha portato a casa risultati solidi” e grazie alle nuove scoperte e agli investimenti in alcuni settori “le previsioni del 2014 restano in linea anche in un contesto di debole domanda europea e di volatilità in Libia”. L’ex nazione di Gheddafi resta infatti un problema per l’Eni. Da un lato l’entrata in funzione dei giacimenti del Regno Unito e in Algeria hanno compensato la produzione libica, ma sul lungo Tripoli resta una incognita che pesa il doppio, visto che nel complesso rappresentava produzioni mature e ben avviate di energia.
Nulla che comunque non fosse già stato previsto e messo in cantiere nel 2013. La vera doccia fredda è arrivata invece in questi giorni dal Kazakhstan. Dove l’Eni ha una quota di grande rilievo nel consorzio di Kashagan, un giacimento scoperto nel 2000 nella parte Nord del mar Caspio. Dopo anni di lavoro e oltre 40 miliardi di investimenti complessivi i lavori di estrazione avviati a settembre del 2013 hanno ricevuto una serie di stop tecnici per via della difficoltà delle tubature di reggere la pressione e il transito dei gas. Le difficoltà sono state bypassate anche per la necessità di dare un colpo di reni alla produzione. Lo scorso ottobre il consorzio rischiava di incorrere in sanzioni se non avesse rispettato i termini, ma è stato poi costretto dal governo di Nazarbayev ad avviare una serie di ispezioni. Di fatto congelando l’attività fino al secondo trimestre del 2014.
La scorsa settimana, secondo quanto riportato dal Financial Times, il governo Kazako avrebbe fatto sapere che la ripartenza del campo di Kashagan, sarebbe da prevedere addirittura nel 2016. La sostituzione delle pipeline nel campo, infatti, dovrebbe richiedere due anni di tempo. Il doppio della stima fatta solo pochi mesi fa. Una notizia che se confermata avrebbe un forte impatto negativo per il colosso italiano che per ora si limita a far sapere di non essere in grado di dire quando riprenderà la produzione e, comunque, che non se ne farà nulla prima del 2015. Anno per il quale gli analisti di settore avevano stimato una capacità produttiva in Kazakhstan di circa 30mila barili al giorno, più o meno il 2% della produzione. Una riserva che avrebbe consentito al Cane a sei zampe di archiviare il terreno perso in Libia dopo la morte di Gheddafi e l’allontanamento del Paese dalla sfera politica italiana.
Senza contare che i rapporti con Nazarbayev non possono essere certo definiti tranquilli. L’altro giorno ha lanciato l’ennesima bomba su Kashagan annunciando la volontà di multare l’intero consorzio (al quale partecipano anche ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Total, Eni, CNPC e KazMunaiGas, la compagnia di Stato di Astana) per una cifra che viaggia intorno ai 730 milioni di dollari. Motivo? Le emissioni inquinanti, a detta del locale ministero dell’Ambiente, riversate nell’atmosfera tra settembre e ottobre scorsi. Una spada di Damocle che è lì pronta a d accogliere l’era della nuova presidenza Marcegaglia.