Sono passati vent'anni da quando al Gp di San Marino morì il più grande pilota di tutti i tempi. Cinque milioni di brasiliani aspettarono la salma all'aeroporto e lo accompagnarono al cimitero. Fu il riscatto di un Paese grande quanto un continente
Angelo. Ma anche diavolo. Sensibile. Ma all’occorrenza spietato. Un dio in terra smanioso però di vivere totalmente, profondamente, la sua condizione di uomo nelle sue grandezze e nelle sue miserie. Lui lo sapeva: sapeva di essere speciale e anche – semplicemente – normale. Il migliore quando guidava, uno dei tanti quando viveva. Il primo e l’ultimo: proprio come i due ragazzi, Senna e Ratzenberger, che si ritrovarono distesi l’uno accanto all’altro, in perfetta eguaglianza, nel silenzio, in quel tristissimo giorno d’inizio maggio 1994 all’obitorio dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Vent’anni fa. Erano i giorni del Gran Premio di Imola; sabato 30 aprile se n’era andato l’ultimo fra gli ultimi, domenica 1 maggio lo aveva raggiunto il primo fra i primi. In una sorta di parabola evangelica che Ayrton Senna – che non aveva paura di parlare di Dio – non avrebbe fatto fatica a comprendere.
Video di Giulia Zaccariello
Non c’era mai stato e forse non ci sarà più uno come Ayrton Senna: il brasiliano silenzioso dal sorriso triste, il campione di tutti i tempi e di tutti gli sport, il pilota per cui non sarebbe stato esagerato dire “e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare” visto che come guidava lui non ha più guidato nessuno. Davvero: ci sarebbe voluto Dante per dire, bene, chi era Senna. “L’uomo della pioggia”, per chi ricorda i prodigi che solo lui sapeva sfoderare quando le piste diventavano acquitrini e i piloti comuni mortali. Come nel 1984, al debutto in F1, quando a 24 anni, nel G.P. di Monaco, al volante di una scatola di sardine chiamata Toleman Senna s’inventò la danza della pioggia; e mentre Tambay e Mansell, Piquet e Warwick andavano a sbattere, lui, guizzando tra la Williams di Laffite e quella di Rosberg, sorpassando la Ferrari di Arnoux e la McLaren di Lauda, s’arrampicò dal 13° al 2° posto, poi mise nel mirino Prost, che al 20° giro aveva un minuto e mezzo di vantaggio su di lui.
Novello Houdini, Senna prese a mangiargli 6 secondi a giro. Al 31° passaggio il distacco era ridotto a 7 secondi e mezzo. Alla fine del 32° giro, mentre stava ormai per avventarsi sul francese, umiliandolo, il direttore di gara, l’ex ferrarista Jacky Ickx, si lanciò sul traguardo sventolando la bandiera rossa e quella a scacchi. Gara finita. E vittoria a Prost perché il regolamento recitava: vince chi è in testa un giro prima dello stop. Intanto il mondo stropicciava gli occhi incredulo: da quale lontana e sconosciuta galassia arriva mai questo Ayrton Senna? Nei dieci anni trascorsi in F1, più l’11° (il 1994) chiusosi subito con la sua morte, Senna disputò 161 Gran Premi vincendone 41. Per 65 volte centrò la pole position, che Ayrton coglieva con irrisoria facilità qualunque fosse la macchina che guidava, Lotus, Mc Laren, Williams. La sua sensibilità di guida, genio allo stato puro, gli permetteva di sbucare dai box negli ultimi 5 minuti e di migliorare, regolarmente, il tempo più veloce fatto segnare fino a quel momento. Per 87 volte Ayrton partì in prima fila, 80 volte (una su due) salì sul podio, 96 volte si piazzò andando a punti. Nessuno come lui è mai riuscito a portare al limite la propria monoposto. Una volta nell’abitacolo, come toccato dalla grazia riusciva a operare sorpassi impossibili, a inventare traiettorie irripetibili e a ritardare frenate all’inverosimile in un modo unico che ancor’oggi non ha imitatori. Alain Prost: il grande nemico, l’uomo che Senna fece di tutto per sbalzare dal trono dando vita a una rivalità senza esclusione di colpi.
“Lucio Dalla – racconta Leo Turrini, amico di Senna e autore del bel libro In viaggio con Ayrton (Feltrinelli, 15 euro) – ha dedicato una canzone a Senna nella quale gli fa dire ho capito che un vincitore vale quanto un vinto. Ma non è vero. A Lucio lo dissi, Senna questa cosa non la pensava, aveva un istinto di competizione brutale che passava sopra a tutto. A Lisbona, due settimane prima del G.P. del Giappone del ’90, mi disse: Prost è diventato campione del mondo buttandomi fuori pista; quindi, se mi servirà per diventare campione del mondo, lo butterò fuori anch’io. E così fece. Lui aveva una sensibilità e una spiritualità fuori dal comune, ma anche un senso della competizione spaventoso. Era umano anche nel praticare la slealtà”. “Perdonare è una parola difficile da digerire – aveva detto Senna in un’intervista-tv ad Antonella Delprino -; oggi questa capacità in me è ridotta, sono molto lontano dalla maniera di vivere che vorrei praticare”. E però, ci sarà anche Prost, alla fine, ad accompagnare Senna al cimitero di Morumbi reggendo la bara assieme agli amici di sempre, Berger, i Fittipaldi, Jackie Stewart.
“La verità è che furono rivali, arrivarono ad odiarsi ma si stimarono sempre – spiega Turrini – E all’ultimo, prima di morire, Ayrton aveva veramente ammesso Prost nella cerchia dei suoi amici. Fermati Ayrton, c’è un amico ai box che ti aspetta, gli dissero un giorno, a inizio ’94, mentre stava girando in prova. Lui capì che si trattava di Prost, che si era appena ritirato dalle corse, e semplicemente disse: “Ciao Alain: mi manchi!”. Il dio del volante Ayrton Senna, “l’uomo della pioggia”, “l’uomo dei sorpassi”, “il ragazzo che parlava con gli occhi”, volava all’inseguimento di un sogno: battere, lui brasiliano, il record dell’argentino Fangio, che di mondiali ne aveva vinti 5. Fangio aveva conquistato il quinto titolo a 46 anni, Senna a 31 anni era già a quota 3. Aveva tutto il tempo, se non ci si fosse messa la morte. E certo i duelli col giovane Schumacher, che prometteva di diventare per Senna ciò che Senna era stato per Prost, sarebbero divenuti indimenticabili.
Invece Senna morì alla curva del Tamburello del circuito di Imola, il primo maggio del ‘94, perché il piantone dello sterzo cedette e la sua Williams finì a 300 all’ora contro un muretto. Nell’urto il braccetto della sospensione si staccò, entrò nella visiera del casco e gli trafisse il cervello. La bara di Ayrton, avvolta nella bandiera verdeoro del Brasile, quel martedì 3 maggio viaggiò dapprima sull’aereo del presidente della Repubblica Scalfaro da Bologna a Parigi, poi sul volo “Varig RG723” Parigi-San Paolo. Il comandante Gomes Pinto fece togliere 4 sedili in business class comunicando ai passeggeri che si rifiutava, come da regolamento, di sistemare Senna nella stiva. “Io ero lì – ricorda Turrini –, seduto accanto a lui e per tutto il viaggio i passeggeri non smisero di venire in processione a pregare, piangere e ancora piangere sulla bara di Senna”. Cinque milioni di brasiliani fecero ala al loro eroe che dall’aeroporto Guarulhos, sul camion dei vigili del fuoco scortato dai soldati della “Polìcia da Aeronautica”, raggiungeva prima il palazzo del Governo dello Stato di San Paolo, poi il cimitero di Morumbi. Cinque milioni di persone cui Senna aveva fatto un regalo lungo dieci anni: l’orgoglio di sentirsi brasiliani. E il regalo non è ancora finito.
da Il Fatto Quotidiano del 14 aprile 2014