C’è modo e modo di morire. C’è un’età in cui si dovrebbe solo, semplicemente, vivere. C’è la libertà sacra e inviolabile dell’individuo, purché non prevarichi sulla libertà, quindi sulla sicurezza, degli altri; e c’è il ruolo dello Stato, che queste libertà individuali e quindi pubbliche dovrebbe tutelare e proteggere come il tesoro più prezioso, e nulla più.
Non si dovrebbe poter morire a diciott’anni, a un quinto del cammin di nostra vita, e di questa morte.
E non si dovrebbe continuare a subire – in una sorta di paradossale damnatio memoriae, di accanimento mefistofelico – il sostanziale sberleffo da parte di chi ha sbagliato, abusando del suo potere che è esercitato, val la pena sempre di ricordarlo, per conto di tutti noi.
E’ come se Federico Aldrovandi fosse morto ancora una volta ieri al Grand Hotel di Rimini, quando i delegati del Sap, il secondo sindacato italiano di polizia, hanno tributato cinque interminabili minuti di applausi a tre dei quattro agenti condannati in via definitiva per la morte di questo ragazzo 18enne avvenuta durante un normale controllo di polizia, il 25 settembre del 2005, a Ferrara. «È terrificante – ha commentato Patrizia Moretti, la madre di Federico, che oggi avrebbe soltanto 27 anni -, mi si rivolta lo stomaco. Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente pericoloso».
A far brillare il tripudio dei delegati del sindacato di polizia la presenza dei tre agenti condannati dalla Corte di Cassazione il 21 giugno 2012 per eccesso colposo in omicidio colposo a tre anni e sei mesi, tre anni dei quali coperti dall’indulto.
Il 25 settembre 2005 il diciottenne Federico Aldrovandi tornava a casa dopo una notte al Link, storico locale alternativo di Bologna. Gli amici lo avevano lasciato vicino casa. Aveva assunto alcol e droga, in minime quantità.
In quella notte da tregenda di manganelli spezzati e presunte mosse da Karate Kid perpetrate sotto effetto di sostanze sedative e sedicenti harakiri contro i pali della luce, Federico incrociò sulla sua strada una pattuglia della polizia. Poco dopo non sarebbe stato più di questo mondo. Ufficialmente per un arresto cardio-circolatorio dovuto all’utilizzo di droghe. Poi venne fuori un’asfissia “da posizione”; il suo torace sarebbe rimasto schiacciato, troppo a lungo, sotto le ginocchia dei poliziotti.
Il corpo di Federico, martoriato e sfigurato da decine di ferite ed ecchimosi, restò in orrenda mostra di sé sull’asfalto fino alle 11 del mattino.
La famiglia venne avvisata molte ore dopo la sua morte.
Certi applausi fanno rumore, ma non emettono vero suono; sono pistole caricate involontariamente a salve. Cinque minuti di atrocità.
E il povero Federico continua a non riposare in pace.