Ho sentito con le mie orecchie le parole alla radio di Paolo Villaggio sulla inferiorità della cultura africana. Se così non fosse non avrei potuto credere che un uomo di cultura come lui potesse mai esprimere un’idea così volgare, immatura e arretrata.
Siamo passati dalla teoria -ormai scientificamente insostenibile- della “superiorità della razza” a quella più subdola, ma non meno pericolosa, della “superiorità di una cultura”. Mi riecheggiano nella mente le nitide riflessioni del grande antropologo Marco Aime nel suo prezioso saggio Eccessi di culture.
Su una cosa soltanto concordo con Villaggio: l’ipocrisia buonista che si cela dietro certi atteggiamenti, ma riscontro che purtroppo non si tratta di razzismo; uno stesso livello di ipocrisia lo si ritrova spesso anche fra gli italiani.
Pare evidente invece l’ignoranza che Villaggio esprime sulla straordinaria ricchezza delle culture africane. E dicendo questo non mi riferisco solo alla loro immensa storia antica, in larga parte violentata da secoli di schiavitù e colonialismo, ma anche a quell’insieme di valori -tutt’ora vivi- che per molti aspetti potrebbero persino rappresentare un faro per il nostro futuro, nello smarrimento contemporaneo legato al declino materiale e spirituale della nostra cultura del “ben-avere”.
Mi riferisco a delle visioni africane della vita e della società da cui noi avremmo molto da imparare, in un fecondo scambio interculturale, per riorganizzare le nostre società su basi diverse e più sostenibili, non solo da un punto di vista ambientale, ma anche sociale. Mentre noi ci attorcigliamo disperati nella morsa della povertà, che ci dicono essere portata dalla crisi, in alcune lingue africane non esiste neppure una parola per tradurre il concetto di “povertà economica”; nella lingua wolof del Senegal, ad esempio, per esprimere questo concetto si utilizza l’espressione “ki amul nit”, che significa “orfano”, quindi povero di relazioni.
La centralità della dimensione sociale appare evidente in molte culture africane e potrebbe, a mio avviso, suggerirci qualche utile spunto di riflessione di fronte al collasso di un sistema fondato sull’individualismo e sull’ideologia della crescita.
Se ho fatto riferimento ad una espressione in una lingua africa è perché -come ricordava ironicamente Nanni Moretti– “le parole sono importanti”, in positivo come in negativo.
E in Africa lo sanno bene, come dimostra questa celebre frase di Amadou Ampaté Bà, grandissimo poeta del Malì, che riassume splendidamente l’importanza dell’oralità nelle culture africane: “In Africa quando muore un anziano brucia una biblioteca.”
La parola infatti è tutto nella comunità di villaggio! E’ attraverso la parola che si prendono le decisioni più importanti per la comunità e si trasmette tutto il sapere antico, le conoscenze, la cosmogonia, la saggezza degli anziani…
Mi sembra interessante considerare la traduzione che propone Bernard Lédéa Ouedraogo -fondatore del Movimento Naam- per la parola “sviluppo” nella lingua mooré del Burkina Faso: “Se si dovesse tradurre il termine “sviluppo” in lingua mooré, nel linguaggio dei contadini, si impiegherebbe l’espressione: “somwata”” che significa: “le buone relazioni e i benefici aumentano”.
Non è forse abbastanza chiaro?
Uno sviluppo inteso non come raggiungimento del benessere economico – cioè come crescita materiale – ma di un benessere globale, che privilegia le relazioni sociali e l’armonia della comunità. Se prendessimo questa concezione dello “sviluppo” come metro di riferimento, chi risulterebbe “sottosviluppato”?
Ma c’è un’altra espressione in lingua mooré su cui vale la pena riflettere: “Lafi”, onnipresente nei saluti, che significa al tempo stesso “salute fisica”, “pace interiore” e “pace” nella comunità e nel paese, intesa come assenza di guerra o conflitti interni.
Non esistono tre parole distinte per esprimere questi concetti che risultano quindi legati indissolubilmente in una concezione del “benessere” che racchiude in sé gli aspetti sia fisici che psichici e morali, e non può esistere se non è condiviso dalla intera comunità in cui si vive.
Quanto siamo lontani dalla cultura consumistica fondata su una concezione del “benessere” inteso come “ben-avere” esclusivamente individualistica e materiale, che però si scopre sempre più insoddisfatta e insostenibile.
C’è ancora un termine su cui vorrei soffermarmi, concludendo, sempre nella lingua moré del Burkina Faso, “Nàaba” il quale ha contemporaneamente il significato di “capo” e di “servitore”.
Una visione del potere inteso dunque come servizio alla comunità! Secondo la tradizione, infatti, il potere di un capo è sancito dalla totale mancanza di beni materiali: chi decide su tutto, non ha bisogno di possedere niente.
Una leggenda racconta di tre fratelli che si videro distribuire ciascuno una borsa che conteneva il simbolo della loro attività futura. La borsa del primo fratello conteneva grani di miglio, ed egli infatti divenne agricoltore. La borsa del secondo fratello conteneva ferro, e questi divenne fabbro. La terza borsa, infine, non conteneva nulla: il terzo fratello divenne infatti un capo.
Quanti nàaba, intesi in questo senso, riusciremmo a trovare in Italia? Quanti candidati avremmo alle prossime elezioni se questi dovessero essere servitori in un’ottica che ci ricorda Gandhi, e poveri come San Francesco d’Assisi?
Penso proprio che le culture dell’Africa meritino tutto il nostro rispetto e possano tranquillamente dialogare alla pari con noi, in un reciproco e fecondo scambio di idee. Detto in parole più semplici, riprendendo un celebre espressione dell’intramontabile Fantozzi: caro Villaggio, per me la superiorità culturale è una cagata pazzesca!