Tutto in una notte, tutto in una macchina. All’opera seconda dopo Redemption, l’inglese Steven Knight ci riconsegna il grado zero del grande cinema: uno straordinario interprete, Tom Hardy; un’eccellente sceneggiatura (Knight era stato candidato all’Oscar per gli script de La promessa dell’assassino di Cronenberg e Piccoli affari sporchi di Frears); una fedelissima attinenza alle unità aristoteliche – diciamo così – di tempo, luogo e azione; una fascinosa regia interamente giocata nell’abitacolo di una BMW X5, ma lungi dall’essere claustrofobica; l’emozione per unico effetto speciale.
Smessi gli stivali inzaccherati, a salire sul Suv è Ivan Locke, capocantiere di una colossale costruzione di 55 piani: la colata di cemento sarà la più grande mai vista in Europa – fatta eccezione per le installazioni nucleari militari – ed è prevista per l’indomani. Problema, Locke non potrà dirigere le operazioni: Bethan (Olivia Colman) sta per partorire a Londra e Ivan non vuole mancare. Quel figlio è suo. Altro problema, Locke ha una moglie, Katrina (Ruth Wilson, voce regina). Terzo problema, forse il primo, è il lavoro: Ivan comunica al suo capo Gareth (Ben Daniels) la decisione di mollare il cantiere ma, insieme, catechizza l’operaio Donal (Andrew Scott, ilare) affinché l’importantissima consegna di cemento prevista di lì a poche ore non si trasformi in una catastrofe.
Via Bluetooth, ovvero al cellulare, Locke dovrà porre rimedio a tutti questi problemi, sulla scorta dell’imperativo morale di Knight: “Volevo fosse una sorta di tragedia ordinaria. Non è un inseguimento di macchine o un’invasione aliena, ma per tutti quelli coinvolti rappresenta un’enorme tragedia”. Quattro giorni di prove, riprese per otto notti, tre macchine da presa digitali Red Epic montate nell’X5, l’autostrada M1 tra Birmingham e Londra “ricreata” sulla North Circular, Locke è stato presentato Fuori Concorso all’ultima Mostra di Venezia: il Leone d’Oro l’ha vinto Sacro Gra, ma il Raccordo non vale l’M1, quel film questo. Avrebbe dovuto stare in competizione e – per noi – vincerla.
Sì, Locke è una bomba, a implosione: sull’exemplum del suo omonimo, il filosofo empirista inglese John Locke, Ivan non perde la calma, ma pianifica, organizza, intima e rassicura. È un uomo di ferro, pardon, calcestruzzo, ma la sua vita si sta distruggendo: prima di mettersi in auto, dice, aveva una moglie e un lavoro, ora non più, eppure non molla. Deve andare in ospedale da Bethan, per non incorrere nello stesso misfatto del padre, che lo abbandonò in fasce (analogia con l’altro Locke): lucidissimo con la moglie e “l’altra”, commosso con i due figli, la rabbia la riserva per il genitore, che osserva dallo specchietto retrovisore come un fantasma che solo lui intuisce.
Ma in quell’auto c’è soprattutto la realtà, quella che va in frantumi per una debolezza: bruttina stagionata, fragile e problematica, Ivan non ama Bethan, ma un bicchiere di troppo, la volontà di farla felice e il guaio è stato fatto. Ivan non si sottrae, ma Locke è un monito piano, geometrico sulle conseguenze delle nostre azioni: se volete, un potente contraccettivo, un “Pericolo!” stampigliato in rosso sulle nostre velleità extraconiugali, perché – dice Katrina – “la differenza tra mai e una sola volta è la differenza tra il bene e il male”. I pro-family sottoscriverebbero, s’intende, ma il film è per tutti quelli che amano il cinema, ovvero lirica su strada, apologo al volante, soggettive, luci e asfalto on the road. Tom Hardy è un mostro di empatia (in Italia uno così non l’abbiamo), Steven Knight non sbaglia nulla, Locke mette le quattro frecce alla nostra umanità: fate l’autostop e salite a bordo, ne vale la pena.
Il trailer