Si resta perplessi, disorientati, sconcertati. In manette è finito il marito di Silvana Fucito, simbolo formato fiction, “Il coraggio di Angela”, della resistenza contro i “signori del pizzo” a Napoli. Gennaro Petrucci, 64 anni è ai domiciliari con accuse precise: associazione a delinquere, dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e simulazione di reato. La stessa Fucito, esponente di punta del Fai, Federazione antiracket italiana, risulta indagata nella sua veste di amministratrice unica di una azienda che intratteneva rapporti commerciali con un’altra società del coniuge. Quest’ultima azienda, secondo l’accusa, pur presentando formalmente dichiarazioni dei redditi e bilanci, non ha mai operato, annotando fatture “di comodo”.
A sentire Fausto Zuccarelli, procuratore aggiunto e magistrato d’esperienza, titolare del fascicolo investigativo, le aziende facenti capo a Petrucci avrebbero attuato una frode fiscale imponente. Gli uomini del Gico hanno anche sequestrato beni per più di tre milioni di euro. Inchiesta delicata che i magistrati partenopei del procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo sapranno condurre con il solito rigore e indipendenza. Restano sul tappeto problemi e criticità seri che attengono a tutto quel mondo variegato e affollato che prende il nome dei “professionisti dell’anticamorra”.
C’è da segnalare che la Fucito ha immediatamente rassegnato le sue dimissioni – per ragioni di opportunità ma anche di indagini giudiziarie – dalla carica di coordinatore regionale delle associazioni antiracket. Nelle stesse ore convulse all’unanimità è stato eletto Rosario D’Angelo che guiderà le 15 associazioni antiracket facenti capo a un’altra associazione la Fai, la Federazione antiraket italiana di cui è presidente onorario Tano Grasso. In una nota che ha il sapore di mettere le mani avanti la stessa Fai specifica: “L’auspicio è che nessuno, ora, voglia utilizzare questa storia per indebolire il valore di una straordinaria esperienza nata a Napoli nel 2002 e che ha conosciuto storie importantissime”.
Rassicuriamo. Nessuno vuole utilizzare la disavventura giudiziaria della famiglia Fucito – tutta da chiarire – per aiutare i camorristi però – ci consentiranno i professionisti del Fai e satelliti simili– che qualche problema c’è. Del resto la stessa Fai – ne ho scritto da questo blog lo scorso gennaio riprendendo una notizia del corriere.it – è attenzionata dalla Corte dei Conti di Napoli. I giudici contabili stanno ricostruendo gli ingenti finanziamenti Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea di cui una buona fetta quasi 7 milioni di euro è affluita nella casse dell’associazione Fai di Tano Grasso. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto della Corte dei Conti è che l’iter per l’assegnazione della pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. I giudici contabili sospettano un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale.
Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali.
Cosa dire? La vicenda giudiziaria della famiglia Fucito chiaramente nulla c’entra anzi affermare il contrario o confondere i piani è sbagliato però è inutile nascondersi: i nostri stagionati paladini del bene sembrano aver perso la bussola. Si muovono come se fossero – infatti lo sono – apparati, lobby, aziende che nel loro agire rispondono a rigide logiche d’interessi. La sensazione è che in generale tutto il mondo variegato dell’anticamorra – per la buona pace di pochissimi – si sia assestato in una sorta di professionismo distorto, una perenne industria bel bene che fa bene solo a se stesso dove gli ambiti e i livelli d’interlocuzione con mondi apparentemente lontani sono sempre più vicini.
Insomma un fatto è prestare la propria professionalità per la realizzazione di un progetto finalizzato all’affermazione della legalità in un territorio affrontando problemi concreti altro, invece, è tirare dal cilindro con piglio monopolistico inciarmi vari per ottenere finanziamenti telecomandati dagli amici degli amici che sono poi sempre amici. Mi ha sempre insospettito lo strano e incontrollato proliferare di progetti, bandi, incarichi formato sartoriale, consulenze a compagni di merenda, creazione di scatole vuote, apertura di sportelli e sportellini, consorzi, associazioni di associazioni, federazioni di associazioni. Alla luce di tutto questo armamentario Napoli, la Campania a un certo punto di un eccezionale e genuino percorso di liberazione si è rivelata laboratorio italiano di un certo andazzo, il solito. E pensare che contro fenomeni come camorra, racket, usura Napoli e la Campania avevano fatto passi da gigante in termini di lotta e reazione civica, vedi il caso di Ercolano.
Invece le ultime cronache giudiziarie ci raccontano tutt’altre storie ben diverse da quelle che una generosa e ben pagata pubblicistica antiracket vuole rappresentare. Continuo a pensarla come il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri: “Non possiamo tollerare che ci sia gente che lucra e che dell’antimafia fa un mestiere. Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli. Nella lotta alla mafia bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se”.
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