“L’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”. L’allenatore della Juventus Antonio Conte ci ha definitivamente avvicinato a questa verità dopo il tremendo naufragio nella semifinale di Europa League.
‘Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Conte’ si manifesta davanti ai microfoni dopo la sconfitta contro il Benfica, che ha chiuso le porte della finale alla Juve. Secondo il tecnico dei bianconeri “l’arbitro ha avvalorato la tattica ostruzionistica del Benfica, permettendogli tutto” e alla Juve non è stato assegnato “un rigore sacrosanto, come all’andata”. Una tattica riconducibile a uno schema più grande: secondo Conte, infatti, la squadra portoghese “ha più esperienza, è stata brava a piangere con l’Uefa, magari dovevamo farlo anche noi”. Insomma, “l’arbitro non è stato all’altezza” perché condizionato.
È evidente: il Conte che ha parlato così dopo Juventus-Benfica, non può essere lo stesso che meno di una settimana fa ha dato del provinciale all’allenatore della Roma Rudi Garcia per aver detto di sperare che le squadre avversarie dei campioni d’Italia da qui alla fine del campionato non avrebbero giocato mollemente. E che qualche settimana prima aveva parlato di ‘aiutini’ pro-bianconeri.
Come il protagonista del famoso romanzo di Stevenson anche il tecnico leccese è veracemente due: rigetta l’accusa di ‘aiutini’ in Serie A ma giustifica allo stesso modo l’eliminazione da una competizione europea. Non si può (giustamente) condannare la cultura del sospetto il venerdì e cavalcarla cinque giorni dopo. E non è una questione di Conte, di Garcia, di Juve o di Roma. È una questione che riguarda il modo esasperato e velenoso di (quasi) tutti noi di vivere lo sport e non solo.
La Juve ha vinto gli ultimi due scudetti e sta per cucirsi il terzo sul petto semplicemente perché in Italia ha dimostrato d’essere la squadra più continua. La stessa squadra, allenata dallo stesso allenatore, è stata eliminata dall’Europa League per un motivo altrettanto semplice: in 98 minuti non è riuscita a segnare un gol a una squadra ordinata, compatta, ben messa in campo ma non irresistibile. Avrebbe parlato dell’arbitro, Conte, se Tevez fosse arrivato sul pallone spizzato da Bonucci che ha attraversato tutta l’area piccola senza che un bianconero riuscisse a soffiarla in porta? O se Luisao non avesse salvato sulla linea di porta la capocciata di Vidal?
Avremmo voluto sentire Conte parlare dell’incapacità d’ammazzare le partite che molte volte colpisce la Juve, soprattutto in Europa. Ci sarebbe piaciuto se avesse argomentato riguardo una squadra che in venti minuti di 11 contro 10 (in parte contro 9) ha creato una sola vera occasione da gol (Caceres di testa). Sarebbe stato bello perché ci avrebbe detto che l’allenatore che da tre anni domina in Italia ama parlare di calcio giocato. Sempre. E ci sarebbe piaciuto anche se fosse stato l’allenatore dell’Inter, del Milan, della Roma, del Napoli o del Pizzighettone. (R)esiste invece la consueta moda di scaricare su agenti esterni la colpa delle proprie sconfitte. Salvo rigettare questa tesi quando si è dalla parte dei vincenti. Un modo di affrontare il verdetto del campo buono su Facebook, in ufficio e al bar.
Già, ‘le chiacchiere da bar’. Di molti tifosi tutti i giorni. Di Garcia al venerdì. E purtroppo anche di Conte, appena cinque giorni dopo.