A fine aprile è stato “bocciato di fatto il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati voluto fortemente dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle hanno approvato in commissione Giustizia del Senato, l’emendamento del M5S che cancella l’art.1, cioè il cuore del testo”. Su un tema di straordinaria importanza si procede sulla falsariga di una discussione tecnica mentre invece in realtà domina uno scontro politico. Autonomia e indipendenza dei magistrati sono certo un bene prezioso, da salvaguardare nell’interesse di tutti. E della stessa democrazia. Ma è altrettanto vero come essi non debbano significare impunità, irresponsabilità, autogestione. A fronte di circa 8 mila magistrati togati ve ne sono almeno altrettanti onorari (i cosiddetti non togati). Tra i quali esponenti di assoluto valore, indipendenza, onestà intellettuale capacità, passione, rigore morale.

In Italia da tempo il potere esecutivo tenta di demolire il cosiddetto potere giudiziario, con l’intento di controllarlo. Ma tale equilibrio tra poteri impone anche reciprocità. Sarebbe dunque aberrante se fosse possibile agire con disinvoltura contro un magistrato (durante la pendenza del procedimento per il quale si intende contestargli la responsabilità civile) ma altrettanto aberrante sarebbe il contrario, ove si consentisse al magistrato di sottrarsi con disinvoltura da tale responsabilità, ove incorsovi. Oggi non è possibile la prima aberratio ma si realizza la seconda.

La storia ci ricorda che dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 2/68 si tenne il referendum abrogativo l’8.11.87, – sulla scia del “caso Tortora” – e l’80% si pronunciò in favore dell’abrogazione del d.p.r. n. 497/1987, limitativa della responsabilità civile dei magistrati. Venne così approvata la legge 13.4.1988, n. 117 (responsabilità civile dei magistrati), che tuttora disciplina la materia. Normativa che ha corrisposto solo in parte all’intento dei promotori del referendum abrogativo, prevedendo una responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del magistrato, previa rivalsa dello Stato. E solo per dolo o colpa grave (art. 2, comma 3). Il dettato e l’applicazione della l. 117/88 e i numeri conseguenti dimostrano come il risultato referendario sia stato tradito. La responsabilità civile dei magistrati è solo virtuale, non reale.

La Corte costituzionale ha difatti coniugato l’opportunità della responsabilità civile del magistrato, temperandola con la necessità di salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura (Corte cost. n. 385/96). La legge n. 117/88 ha però trovato rare verifiche nelle corti e ciò non è un caso. A seguito di uno studio sull’applicazione della legge (1988-2004), sono stati rinvenuti in 16 anni solo 6 casi in cui è stata ammessa l’azione contro lo Stato, dei quali solo 2 pervenuti ad una condanna a carico dello Stato. La scarna casistica non era dipesa dalle rade azioni di risarcimento, anzi frequenti, quanto invece all’interpretazione estensiva dell’ammissibilità dell’azione di responsabilità civile, così falcidiando le azioni alla radice.

Tale schermo rende quasi impossibile arrivare ad accertare la responsabilità civile (già indiretta) del magistrato, come ben sa l’avvocatura al pari degli sfortunati cittadini incorsi negli errori dei giudici.

In tale percorso riformatore il governo Monti venne battuto alla Camera dove venne approvato a scrutinio segreto un emendamento del leghista Pini che rivedeva la legge  Vassalli prevedendo la responsabilità diretta dei magistrati, estesa alla “manifesta violazione del diritto”. Si è subito sostenuto però che ciò “mina la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”, come scritto dall’Associazione Nazionale Magistrati nel documento unitario consegnato in commissione Giustizia al Senato.

Ciò che aveva indignato i magistrati era la definizione di “dolo” cui è stato riconosciuto addirittura “il carattere intenzionale della violazione del diritto“. Il rimedio, si è sostenuto, sarebbe peggiore del male, visto che una norma simile non avrebbe eguali negli altri ordinamenti. Per vero io non ho mai letto uno studio di diritto comparato al riguardo. Occorre quindi essere onesti nella discussione. Come riconobbe anche Tinti su questo giornale nel 2012: “sia la legge del 1988 sia quella proposta dal governo, sono carenti. Entrambe prevedono un limite alla restituzione allo Stato da parte del magistrato: fino a un terzo dello stipendio annuo (la legge dell’88) e nella misura di uno stipendio annuo (la legge nuova). Insomma, lo Stato può pagare 100 milioni di euro per via di un errore (grave, inescusabile, una cazzata) commesso dal magistrato; ma questi gli restituisce al massimo 60 mila euro (in media il suo stipendio annuo). Questo è inaccettabile. Nessun cittadino gode di una tutela del genere.” .

Serve autocritica, la presa di coscienza che la legge Vassalli è stata volutamente applicata in modo talmente restrittivo da renderla di fatto inapplicabile.

Non si può però certo cadere nell’eccesso di introdurre forme agevolate tali da comprometterne autonomia e indipendenza. E’ però possibile immaginare: a) una forma diretta di responsabilità in caso di dolo del magistrato; b) semplificare il procedimento per la forma indiretta di responsabilità in caso di colpa grave del magistrato; c) garantire la terzietà dell’organo giudicante prevedendo una composizione mista (magistrati, avvocati, cittadini); d) non limitare l’obbligazione della posta risarcitoria.

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