Serbia: ‘La finestra russa’ di Dragan Velikić

Un vero e proprio atto d’amore per la flânerie il romanzo La finestra russa dello scrittore serbo Dragan Velikić, libro pubblicato in Italia da Zandonai Editore e tradotto da Dunja Badnjević e Manuela Orazi. Si tratta di una flânerie, di una passeggiata, che trasuda Europa dell’est, Balcani, confine tra Oriente e Occidente. Velikić può essere definito, rubando l’espressione a Baudelaire, “un botanico del marciapiede”: quando l’arte tradizionale è inadeguata per le dinamiche complicazioni della vita moderna e per i cambiamenti sociali ed economici portati dall’industrializzazione, c’è la necessità che l’artista si immerga nella metropoli e diventi un conoscitore analitico del tessuto urbano.

Ed è quello che fa Rudi, il protagonista del romanzo. Figlio di una modista e di un rassegnato giornalista di provincia, il giovane Rudi Stupar mette in atto continue strategie per restare estraneo a se stesso: intraprende una carriera di attore per la quale non è tagliato, studia una materia che non lo appassiona, infine sceglie l’esilio. Per sottrarsi al servizio militare abbandona Belgrado per Budapest, e da lì fugge inquieto alla volta della Germania, a Monaco e poi ad Amburgo, dove lavorerà, tra l’altro, in una ditta che prepara i defunti per l’ultimo riposo.

“L’eternità è un enorme archivio in cui vengono registrati non solo gli eventi storici, ma anche i percorsi di casalinghe senza nome che cucinano, fanno il bucato, spolverano, lavano per terra, stirano la biancheria; in questo archivio si ammassano le tele dei maestri olandesi, i fossili nelle rocce, le sinfonie dei classici e i motivi dei cantori di strada, gli inni nazionali e le lettere d’amore, le piante di città le cui strade sono state deviate dai bombardamenti così come l’aria stagnante delle piramidi.”

In realtà, i molteplici impieghi e le inesauste flànerie sono semplici occasioni per spezzare i vincoli imposti dalla mera cronologia e intraprendere un viaggio a ritroso nel tempo, propiziato innanzitutto da un fitto intrico di relazioni erotiche: molti i nomi di donna che danzano sulle labbra di Rudi in queste funamboliche pagine, molti i mondi dischiusi da quei corpi, molti i fantasmi che vengono a tormentare gli amanti. Un romanzo magmatico e vigoroso in cui Velikić tratteggia, spostandosi con agilità nello spazio e nel tempo, la complessa scoperta di una vocazione, quella per la scrittura, grazie alla quale anche noi veniamo sollevati in un universo dove vorticano voci, echi e destini strappati all’oblio.

“La rete del mondo vibra sempre, spariscono i cortili e le scale interne, i cartelloni pubblicitari nelle strade e le panchine nei parchi, le facciate defli edifici e le chiome degli alberi, intere città e paesaggi, e sopra di essi si depositano nuovi strati. Ogni fotografia, ogni parola pronunciata, ogni tonalità o brusio, cambiano per sempre il volto del mondo. Il cambiamento è l’unica costante.”

Un romanzo che fa perdere il lettore. Ci si smarrisce piacevolmente perché Velikić usa magistralmente le parole, nulla è lasciato al caso. La sua è una prosa che rapisce, che abbaglia per la capacità di musicalità e poesia anche nelle piccole cose, nelle costanti descrizioni di ambienti, palazzi, persone, luoghi che Rudi traccia da una città all’altra, da un’epoca all’altra. E, fra le righe, sembra come di leggere una sorta di rimpianto dell’autore per un mondo che fu, dilaniato da una guerra fratricida e da bombardamenti firmati emisfero occidentale.

“Qual è il luogo giusto, Rudi? Quello in cui c’è una cornice solida, ci sono delle regole. Nonostante le guerre e le rivoluzioni. Quello in cui esistono le bussole. Esiste il là e il qua, esistono i punti cardinali, i posti sono numerati. Le prenotazioni vengono rispettate. In treno, al ristorante, a teatro. Si può utilizzare per decenni la stessa marca di sapone. Non è poco. È un punto fermo. Poter comprare sempre i pantaloni di velluto, non solo quando vanno di moda. Far sì che i negozi di antiquariato siano pieni dei cimeli delle vite altrui che parlano di tempi migliori. Anche se non sono i nostri tempi migliori, anche se non è il nostro passato, è pur sempre migliore. Il solo fatto che per qualcuno, una volta, ci siano stati tempi migliori, mi fa sentire meglio. Che i parchi siano ordinati, che la moneta sia stabile. Che si possa mangiare un formaggio di capra che ha sempre lo stesso sapore. Che ci siano delle costanti, che il postino arrivi sempre alla stessa ora. Lo so, anche nel luogo giusto ci sarebbero conti da saldare, anche lì la vita sarebbe sempre in costruzione, ma perlomeno il cantiere sarebbe recintato, ci sarebbero rifornimenti d’acqua provvisori, un generatore per la corrente elettrica. Tutto è concreto, coerente, e si consuma in obbedienza a un ordine, ma certo mai nelle grida dell’assurdo. Quando vivo lì dove dovrei vivere, anche se solo nei pensieri, mi sento subito meglio.”

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