A tre anni dall’inizio della collaborazione con il fattoquotidiano.it, ho attraversato il ventaglio completo di stati soggettivi: sbalordito, infastidito, deluso, irritato, lieto, colpito, pacificato, indifferente e anche, in non pochi casi, piacevolmente sorpreso. Un passaggio dettato dalla lettura attenta dei commenti ai miei post e dall’obbligata interazione con essi.

La rabbia che serpeggia in molti di loro assume una dimensione palpabile. Ma ciò che colpisce maggiormente si appalesa in una sempre più crescente e sistematica denigrazione, fine a se stessa, che spesso nulla c’entra con l’argomento di discussione ma che ha come obiettivo l’estensore dell’articolo.

Da questo punto di vista il web e l’anonimato sembrano essere perfettamente funzionali a quell’insieme di impulsi, frustrazioni, proiezioni e infine, egotismi che finiscono con il parodiare la libertà di pensiero per la semplice ragione che in molti dei commenti l’obiettivo appare altro, rispetto ad una riflessione che possa confutare il commento precedente o arricchirlo.

L’attitudine al ragionamento, ad una logica ed ad un paradigma sia esso scientifico o letterario o politico, segue sentieri contorti: talvolta si incrocia il commento ironico che stempera una tensione in crescendo ma più spesso il livello degli scambi si limita ad una gara dialettica in cui l’ipotetico vincitore vince, più che per stringente logica, per molestie e conseguente abbandono del contendente.

Lo scopo di questi migliaia di commenti mi sfugge: è possibile che sia un passatempo come tanti altri e che dietro ad un diffamatore seriale si celi un dolcissimo nonno. O è possibile che il deserto di solitudine che accompagna molte delle nostre giornate sia galvanizzato solo all’interno di epici duelli verbali di cui raccontare le gesta davanti allo specchio.

E’ certo che gli argomenti scelti assumono determinate valenze di rabbia o di sfogo man mano che si avvicina a tematiche politiche. Temi come il carcere dividono alla pari di temi come il non profit o l’animalismo. Anche in questi casi pare non esistere una via di mezzo: si passa, in un baleno, dal giustiziere al perdonista seriale. Sul non profit dalla implicita accusa di ladrocini alla santità.

Quando si tocca la politica i fuochi di artificio si fanno bombardamenti: tra le tecniche maggiormente usate l’accusa di essere prezzolato. Se sei un commentatore, sei un troll e se sei un blogger rispondi a una non meglio precisata cupola. In ambedue i casi sei una sorta di “gigolò” delle lettere e tale status annulla la bontà o meno della tua tesi. Su tutto aleggia, autonoma, l’accusa di disonestà intellettuale. Biografie e storie personali perdono significato.

Pare che se il mondo non corrisponda al commentatore di turno non sia sufficiente spiegare perché tale visione è errata. Al contrario di deve tentare di demolire l’autore con buona pace della tesi sostenuta che rimane ben impressa sulla carta.

E’ chiaro che nella vita reale tutto questo non accade: nelle discussioni tra amici e conoscenti si usa un millesimo delle parole e delle allusioni che sul web rappresentano il frasario comune. Però ci dovrebbe sempre più interrogare perché i solchi, anche se solo virtuali, che giorno dopo giorno, vengono tracciati potrebbero, in futuro, tracimare nelle nostre strade.

E’ forse il nodo critico più evidente della rivoluzione digitale. Che assume modalità drammatiche tra gli adolescenti come le cronache ci riportano, ma che avvelena desideri e piaceri di scambi, di possibilii amicizie e arricchimenti collettivi. Al contrario denuncia uno smarrimento in cui le capacità relazionali sono sempre più ridotte e, forse, non più importanti.

E ricostruire un paese avendo perso la capacità di riconoscere l’altro da se, diventa impresa improba. La diffidenza e il sospetto sono i peggiori nemici della condivisione.

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