Nella sceneggiatura renziana il potere di interdizione o solo di mediazione del sindacato non è tollerato. Non c’era bisogno di un mago per intuire che il massimo profitto politico Matteo Renzi lo avrebbe colto in uno scontro senza pari con il sindacato, meglio se di sinistra. E infatti ciò è avvenuto. Se lo fa, anzi, se gli è permesso di farlo è grazie alla caduta della reputazione del sindacato, alla sfiducia circa la sua capacità di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, alla sua inadeguatezza a immaginare strumenti innovativi per far fronte a una crisi economica così straordinaria. All’idea soprattutto che nella casta, nell’imperdonabile élite conservatrice e immobile, Cgil, Cisl e Uil figurino come protagonisti di rilievo.
È vera l’accusa della Camusso: Renzi torce la democrazia, riduce la complessità dei problemi e anche il diritto di parola, di critica, di semplice riflessione. Renzi conduce al suo cerchietto magico il titolo per ogni giudizio definitivo e finale. Ma questo allargamento dei confini del potere renziano anche oltre il lecito è appunto conseguenza, prova di un errore storico, sintesi di una degenerazione avvenuta. Perché oggi il sindacato appare più che come realtà sensibile e aperta, costruita per favorire il lavoro, come un grande facitore di singole carriere? È colpa della Cgil soprattutto se la trasparenza nella selezione del gruppo dirigente e nel finanziamento delle sue attività siano costantemente risucchiati in una nebbia che appare fitta, impenetrabile. Magari non è così, ma così appare. Si vota in Cgil? Certo che sì. Ma come viene formata la volontà degli iscritti, quanto è ampio il loro coinvolgimento nella scelta dei dirigenti e quanto è invece imposto, deciso, concluso prima che ogni congresso inizi?
Sui ritardi del sindacato ha giocato e gioca Renzi. Che non vedeva l’ora di dire: la musica è cambiata. Oggi ancor di più di ieri perchè lo scontro gli porterà voti, non gliene toglierà, e la rottura sarà illustrata come una prova di forza, un coraggio che i suoi predecessori non hanno avuto. Poco conta che alla base di questo proposito belligerante ci sia la carica sinceramente populista del premier e l’idea che egli ha di un esercizio accentrato e solitario del potere. Renzi ha scritto la legge elettorale convocando il leader dell’opposizione (appena rimosso dal suo scranno di senatore per indegnità) non il Parlamento, ha definito una grande riforma costituzionale con il volto più inquietante del berlusconismo (lo statista Denis Verdini). Figurarsi se sulla riforma del lavoro avrebbe permesso ai sindacati di partecipare non alla stesura, ma alla minima discussione preparatoria.
Questo è il piatto, prendere o lasciare. È chiaro che Renzi forza oltre misura il campo delle sue prerogative. Ed è evidente che in questo modo “torce” la democrazia. Ma è anche evidente, solare, limpida la responsabilità storica del sindacato che ha sempre chiesto senza mai dare. Il sindacato è divenuto un palazzo di marmo con i portoni sbarrati a qualunque energia nuova. Pesa sulla Camusso la colpa di non aver divelto al suo interno le porte serrate. È colpa grave. E se oggi qualcuno ne approfitta, chi pagherà il conto?
Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2014