Prolungato di 5 mesi l'ammortizzatore in deroga per i dipendenti del produttore di elettrodomestici in amministrazione straordinaria. Ma il tribunale di Ancona ha annullato in appello, su ricorso delle banche, la cessione di un ramo d'azienda alla J&P Industries di Giovanni Porcarelli, giudicando troppo basso il prezzo di vendita. Senza acquirenti la società rischia la chiusura
Dell’impero che chiamavano “Merlonandia” non restano che oltre 2mila lavoratori in cassa integrazione, un’azienda in amministrazione straordinaria e lo spettro del fallimento. I 1.400 dipendenti della ex Merloni – un tempo gigante della produzione di elettrodomestici – hanno ottenuto infatti, a seguito di un incontro al ministero del Lavoro, il prolungamento per cinque mesi dell’ammortizzatore sociale in deroga. A loro si aggiungono i 700 ex colleghi riassunti dalla J&P Industries di Giovanni Porcarelli, che il giorno prima si sono visti autorizzare la cassa integrazione straordinaria fino a fine 2014. Ma questi ultimi rischiano di perdere anche il posto di lavoro che si erano illusi di avere riconquistato. La doccia fredda è arrivata dalla corte di appello di Ancona, che il 28 aprile ha confermato l’annullamento della vendita del complesso aziendale della Merloni alla J&P Industries.
L’origine della vicenda giudiziaria risale al dicembre 2011, quando l’imprenditore marchigiano Porcarelli ha acquistato i due stabilimenti fabrianesi di Merloni, nelle località di Santa Maria e Marangone, e quello umbro di Gaifana. Costo dell’operazione: 12 milioni di euro. L’industriale ha garantito il riassorbimento di 700 lavoratori per almeno quattro anni in una nuova società, la J&P Industries appunto. Sembrava la fine di un incubo per gli operai di un’azienda in amministrazione straordinaria dal 2008, dichiarata insolvente e oberata da oltre 500 milioni di debiti. Invece no. Perché sette banche, tra cui Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Banca Marche, vantavano nei confronti di Merloni un credito di 176 milioni di euro. E hanno fatto ricorso in tribunale per chiedere l’annullamento della vendita degli stabilimenti, che ritenevano conclusa a un prezzo troppo basso rispetto al valore dell’impresa. Il giudice, il 20 settembre 2013, ha dato loro ragione: gli stabilimenti Merloni, secondo i consulenti del tribunale, valevano 54 milioni, quasi cinque volte in più rispetto al prezzo di vendita. L’operazione, secondo la sentenza, ha “violato un vincolo diretto a salvaguardare, nell’ambito della pluralità degli interessi, quello dei creditori”.
Contro questo primo responso hanno fatto ricorso i commissari straordinari e la J&P Industries. Ma, ancora una volta, ha vinto la tesi delle banche. “La procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – si legge nella sentenza d’appello – non deve concludersi necessariamente con la cessione dell’azienda a qualsiasi prezzo”. Se risulta impossibile vendere i beni a un prezzo congruo, sostiene il giudice, bisogna prendere atto della “impossibilità di procedere nel programma di cessione e conseguente conversione della procedura in fallimento”.
E sarà questo il destino della ex Merloni, a meno che un’eventuale sentenza di Cassazione non ribalti il verdetto o si trovi un accordo nel frattempo. Secondo fonti sindacali, i commissari straordinari sono pronti a fare ricorso all’ultimo grado di giudizio. “Se l’azienda fallisse – spiega Evaristo Agnelli, sindacalista Fiom – i lavoratori andrebbero tutti in mobilità”. Passando dal miraggio del ritorno al lavoro al baratro del licenziamento.