Di lei colpisce la forza. Trasuda dallo sguardo, dalla sua elegante presenza, dal modo in cui parla. E non importa che le sue parole arrivino quasi sussurrate. Sa bene che il segreto di farsi ascoltare non è nella voce alta, ma nella costanza e nella fermezza. E, soprattutto, nel coraggio. Nice Nailantei Leng’ete è una donna Maasai, cresciuta in un villaggio rurale su un pendio del monte Kilimanjaro, in Kenya. A soli 23 anni è diventata il simbolo della lotta alle mutilazioni genitali femminili, una pratica rituale di passaggio dall’infanzia all’età adulta, molto diffusa nei paesi africani. La sua battaglia al fianco di Amref, l’associazione che da oltre cinquant’anni si batte per i diritti sanitari dei popoli africani, le ha permesso di salvare più di 2600 donne di diverse comunità tribali.
Approfittando della sua visita in Italia, incontro Nice a Roma, a due passi da San Pietro, in una bella giornata di sole. È alta, molto graziosa e sorride timidamente quando le porgo la mano. Una timidezza apparente, perché la sua è davvero una di quelle storie che lasciano senza fiato. Rimasta orfana dei genitori in tenera età, Nice viene adottata dalla zia e a otto anni si ritrova a sfuggire all’infibulazione per ben due volte, scappando a 20 chilometri di distanza da casa. Fa ritorno al suo villaggio solo quando il nonno, dove si era rifugiata, ordina alla zia di non sottoporla al rito e di lasciarle riprendere la scuola.
“Il mio rientro in comunità, però, fu molto difficile. Ero diventata per tutti l’esempio da non seguire, la ragazza cattiva da cui stare lontani. E non importava il passare degli anni: senza essere circoncisa io non sarei mai stata considerata una donna, non mi sarei mai sposata, né avrei mai avuto figli. Un essere inutile, per loro potevo anche morire“. Le sue parole arrivano come un pugno allo stomaco. Il tormento e la solitudine di quei giorni, ancora vivi nella sua voce, fanno però presto largo a un bagliore di orgoglio, quando aggiunge di essere riuscita in questo modo a realizzare il suo desiderio più grande, quello di tornare a scuola. Un diritto normalmente negato alle bambine circoncise.
Passano gli anni, il rito per le altre continua. Tre amiche di Nice, durante la mutilazione, perdono la vita. In lei crescono invece la rabbia e lo sgomento. Non capisce l’utilità della pratica, non capisce perché per superare il rito sia vietato persino agitarsi o piangere, pena il non ingresso nella società degli adulti.
Un giorno del 2008, i capi del villaggio le offrono di diventare educatrice di comunità, attraverso un corso di Amref sulla salute riproduttiva delle donne. È a questo punto che la ragazza scopre l’esistenza dell’Hiv e la necessità della prevenzione, comprende l’importanza di partorire in ambienti che osservino norme medico-sanitarie, conosce la possibilità di promuovere riti di passaggio alternativi all’infibulazione. Riti che possono essere spirituali, con il ritiro in chiesa per tre giorni, oppure culturali, con due giorni di training su argomenti relativa alla salute sessuale e un giorno di cerimonia con simulazione di taglio su braccia e gambe. Ritornata al villaggio con queste nuove conoscenze, gli anziani si convincono alla necessità di cambiare. Un cambiamento, che, per essere effettivo, deve affrontare prima le forti resistenze da parte delle levatrici, che temono così di essere private del loro lavoro. Ma, soprattutto, deve coinvolgere i Moran, i giovani guerrieri che vivono nelle foreste, i futuri leader della comunità che parlano solo con altri uomini. Per un anno e mezzo, con infinita caparbietà, Nice va e torna dalla foresta, ogni volta prova a parlare con i guerrieri, ogni volta viene cacciata via in quanto donna. Le prova tutte, cambia strategia, cerca nuovi modi. “Non mi importava che mi cacciassero. Io tanto sarei tornata ogni volta, fin quando non mi avessero ascoltata”, mi racconta. E alla fine, grazie all’intermediazione degli anziani del villaggio, raggiunge il suo obiettivo. I Moran accettano di riceverla e rimangono talmente colpiti da ciò che Nice racconta loro, che, un giorno, il loro capo le consegna l’Esiere, il bastone nero della leadership. Ascoltata, accettata, riconosciuta come capo. La “ragazza cattiva” ora è degna del rispetto di tutti.
Diventata il punto di riferimento della propria comunità e di altri villaggi kenyoti, questa giovane donna, lo scorso settembre, è sbarcata anche negli Stati Uniti per parlare del suo impegno, ospite del Clinton Global Initiative. “Il mio desiderio è che le donne diventino importanti nelle proprie vite. Nel mio futuro mi vedo impegnata a garantire a tutte le ragazze il diritto allo studio, affinché abbiano l’educazione necessaria a diventare ciò che sognano di diventare”, sussurra tutto d’un fiato quando le chiedo qualcosa sui suoi prossimi progetti. E se questo sussurro è il suo sogno, c’è da scommetterci che prima o poi diventerà realtà.
Riferimenti web: http://www.amref.it