La cultura non è trendy? I giovani vogliono altro? Magari solo calcio e tv? Falso. I giornali di Napoli, in questi giorni, sono pieni delle foto delle file chilometriche di chi, soprattutto giovani, aspetta ore e ore per poter entrare in un nostro museo cittadino a vedere una mostra su Andy Warhol e la città che amministro. Credo che si tratti di una piccola storia da raccontare, per tanti motivi. In primis, le città e i giovani hanno voglia di cultura. Le file non si fanno solo per partecipare ai casting del Grande fratello. E’ giusto raccontare quell’Italia. Ma perché non raccontare anche questa Italia? L’Italia di chi studia e crede nei valori della cultura, non solo del successo, dell’apparire e dei soldi. E credo che ci sia la necessità di raccontare questi giovani, soprattutto a Napoli, perché su Napoli prevalgono ancora i più tristi stereotipi, quando si tratta di far parlare una generazione. E’ più allettante raccontare Genny ‘a Carogna, che le tante ragazze e i tanti ragazzi che fanno ore di fila per la cultura.

Questa storia va infine raccontata perché rappresenta il nostro modo di fare politiche culturali. Lasciatemi parafrasare Tucidide, non con immodestia, ma con ironia: “Qui a Napoli noi facciamo così”, difendiamo la cultura, i beni comuni, la missione sociale della Pubblica amministrazione. Senza chiedere fondi, senza sprechi, gestendo in modo oculato il patrimonio. In un museo comunale, il PAN, che abbiamo rilanciato, contro chi preme per la privatizzazione del patrimonio e la privatizzazione della cultura, abbiamo dimostrato che puoi allestire una mostra, di livello internazionale, sotto l’autorevole direzione artistica di Achille Bonito Oliva: e lo puoi fare, con un occhio ai bilanci e senza abdicare a quella funzione sociale dello Stato, che è iscritta nella Costituzione. Trasformando un museo in un evento pop, con le code fuori, come se si trattasse di un concerto rock. Qualche purista storce il naso, ma sbaglia.

Quale soddisfazione maggiore per Andy Warhol, padre della Pop art?

Con Warhol, d’altronde, il cerchio si chiude: chi ha plasmato Napoli in un’icona pop da vivo era logico che trasformasse una mostra e un museo in un evento en vogue, pure a tanti anni di distanza dalla sua morte.

A Warhol, infatti, dobbiamo un nuovo modo di vedere Napoli. Con occhi nuovi. Perché Napoli è icona da sempre, ma Andy Warhol le ha restituito per primo la plastica intelligibilità della Pop art. L’urgenza espressa nella celebre prima pagina de il Mattino che raccontava il sisma dell’Ottanta, trasformata da Warhol in una gigantografia in tre diverse tonalità di grigio. Senza Warhol, quella prima pagina del Mattino, sarebbe rimasta una prima tra le prime, in un prezioso volume da emeroteca. Solo Warhol ha restituito a Napoli e alla sua vocazione di icona una seconda immagine, questa volta immanente e non più imminente: esasperando, come solo la Pop art sapeva fare, l’autenticità dell’emblema. Del resto il Vesuvio è luogo raccontato nella letteratura e nelle arti figurative da sempre. Sarà per questo che “si torna al Vesuvio” e quasi mai ci si va, anche se è per la prima volta.

Per Warhol, Napoli era come New York. La confusione e i volti dei travestiti restituivano a Warhol familiarità per le strade di Napoli: la stessa sensazione avvertita nella Grande Mela. Anche nella New York degli anni ’80, infatti, in un certo senso, si tornava; così stra-raccontata nei film, nella musica e nell’arte figurativa. Quella confusione e quei volti che per Pasolini potevano essere boccacceschi, per Warhol erano pop. Napoli, avvertita e riconosciuta da Warhol, al di là del bene e del male, nella sua complessità. Come Mao Tse Tung, come Marilyn e come Jackie Kennedy, come la lattina della Campbell, allora, anche il Vesuvio divenne pop.

Ed è per questo che vedere tanti giovani stare in fila per una mostra mi riempie di orgoglio. Quando la cultura diventa pop, la nostra scommessa è vinta.

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