Ieri Luciano Regolo ha parlato alla Camera, in sala stampa, del caso dell’Ora della Calabria. Su invito del Movimento Cinque Stelle, il direttore del quotidiano calabrese ha raccontato prima dei “saggi” consigli dello stampatore all’editore, poi delle ritorsioni subite dal giornale e infine della scure usata dal liquidatore, che tosto ha rimosso l’archivio del sito e avviato una flotta di licenziamenti. Dietro, stando alla puntigliosa ricostruzione di Regolo, ci sarebbero vicende oscure, legate a rapporti fra politica e imprenditoria di servizio. Lo hanno ribadito anche i parlamentari M5S intervenuti, Dalila Nesci, Nicola Morra e Paolo Parentela, eletti in Calabria.

L’occasione è servita per centrare una delle grandi questioni calabresi, a mio parere la seconda, in ordine d’importanza, dopo l’emigrazione alias spopolamento. Mi riferisco alla libertà d’informazione, che nella patria natia di Tommaso Campanella e adottiva di Amedeo Matacena subisce sì le logiche della provincia nazionale, ma soprattutto si ritrova tra il fuoco della politica e l’inferno di “Cosa nuova”, a volte un’endiadi.

Va detto subito che non c’è altro luogo, in Italia, in cui la politica sia, in generale, altrettanto arrogante, minacciosa e sicura di passarla liscia. E non c’è altra regione, forse nel globo democratizzato, in cui la politica perseguiti in proprio i giornalisti o si serva di “scagnozzi” per discolparsi platealmente con vigliacca ipocrisia. Soprattutto, non esiste altro posto, come la Calabria, in cui la politica rifiuti che l’informazione è costituita dai fatti come l’uomo è composto d’acqua. Per ultimo, nell’informazione esiste un diritto, civilissimo, che si chiama “replica”, abiurato da presidenti, assessori, sindaci, consiglieri e perfino vescovi calabresi, che magari conferiscono sul dialogo interreligioso.

I fatti vanno taciuti in Calabria, organizzati secondo l’ordine e gli ordini del potere, che differisce dal resto del mondo nel linguaggio e nell’estetica. Della ‘ndrangheta, che è una struttura capitalistica perfetta, conosciamo violenza, armamentario e nervi. Di tanta politica calabrese, invece, non è noto il modo di rapportarsi con i giornalisti, carico di disprezzo di sguardi e parole, messaggi indiretti, odio disumano. Ne ha scritto Roberto Galullo raccontando il rifiuto dell’ex governatore calabrese Giuseppe Scopelliti di solidarizzare con la redazione dell’Ora della Calabria innanzi a Regolo, alla trasmissione tv Perfidia.

Il potere, dunque, fa spesso la linea editoriale, in Calabria. Così promuove datori di luci che trasformino l’isolamento e la frantumazione sociale calabrese in saga della sagra. I media non parlano di corruzione, di voto di scambio, di fuga dei giovani, ma celebrano le calorie della peperonata di montagna o i condimenti speziati del baccalà rivierasco. E via per ogni stagione.

L’affare Scajola-Matacena conferma la calabresizzazione di uomini e sistemi. Bisogna aprire gli occhi, perciò, e riconoscere alla stampa calabrese una condizione di estrema difficoltà, insieme a un ruolo potenziale primario: sia per l’emancipazione collettiva da paura e opportunismo che per la lotta alla criminalità mafiosa e politica.

Ieri il Movimento Cinque Stelle ha proposto alla Camera un’attenta riflessione sulla difesa della libertà dei giornalisti calabresi. È un tema politico alto, forte. Aperto. 

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