L’anno scorso, di questi tempi, vi ho raccontato la storia di Mbaye Diagne, un Capitano dell’esercito senegalese, che, al servizio della Missione di peace-keeping Onu durante il genocidio ruandese del 1994, rifiutò di sottostare passivamente ad immorali “rules of engagement” freddamente dettate dai quartieri generali di New York, che imponevano ai militari della missione di svolgere un mero ruolo di osservazione, senza intervenire a difesa dei civili: obbedendo soltanto al suo onore di soldato, alla propria coscienza ed al senso profondo della Carta delle Nazioni Unite, il Capitano Mbaye Diagne scelse al contrario, fin dalle prime ore del genocidio, di intervenire, per salvare quanti più uomini, donne e bambini potesse dalla tortura e dallo sterminio, e con coraggio, intelligenza e capacità non comuni, ne riuscì davvero a salvare a centinaia, fino a che, il 31 maggio 1994, una scheggia di obice venne a porre fine alla sua incredibile avventura e alla sua vita di giusto. Aveva trentasei anni.

Tra le persone che il Capitano ha salvato, non ci sono solo ruandesi. C’è anche un inglese, Mark Doyle, corrispondente internazionale della BBC, che nel 1994 si trovava in Ruanda per fare la sua parte di giornalista, tentando di informare il mondo sugli orrori di un genocidio che ha fagocitato un milione di persone in cento giorni. Mark Doyle ed il Capitano si conobbero a Kigali, ed in quei terribili giorni di massacri infernali, divennero amici.

Racconta Mark Doyle : “Un giorno, viaggiavamo insieme nella sua macchina bianca dell’Onu per raccogliere informazioni su un orfanotrofio in un quartiere periferico della città chiamato Nyamirambo, dove si riteneva che alcune centinaia di bambini vulnerabili si stessero nascondendo. Mentre ci recavamo sul posto, fummo arrestati dai miliziani ad un posto di blocco. Uno dei miliziani venne verso la macchina e si sporse dal finestrino tenendo in mano una bomba a mano cinese. Sembrava un vecchio modello di sturalavandini, ma invece di una ventosa di gomma, all’estremità del manico c’era una bomba.

Fece un cenno verso di me.

“Chi è questo belga ?”, chiese minacciosamente.

La milizia considerava i belgi, l’antico potere coloniale in Ruanda, come un loro nemico. Solo pochi giorni prima avevano ucciso 10 militari belgi che facevano parte della forza Onu, calcolando che ciò avrebbe spinto l’intero contingente belga delle Nazioni Unite a lasciare il Ruanda – come effettivamente avvenne.

Ero terrorizzato perchè stavano per uccidermi, ma Mbaye guardò l’uomo, sorrise, e improvvisò uno scherzo. “Sono io l’unico belga in questa macchina, vedi ?”, disse, pizzicando un po’ della nerissima pelle senegalese del suo braccio. “Un belga nero!”. Lo scherzo spezzò la tensione del momento. Mbaye ordinò al miliziano di mettersi da parte, ed egli istintivamente obbedì – e proseguimmo il viaggio”.

Da allora, sono passati vent’anni, vent’anni di oblio e di silenzio per il Capitano, la sua vedova, i suoi orfani a Dakar, che furono dimenticati dall’Onu e dal mondo. Ma poichè si deve raccogliere, prima o poi, ciò che nel bene o nel male si è seminato, non tutti per fortuna dimenticarono il Capitano, ed in tutti questi anni la fiamma della sua grande anima ha continuato ad ardere nel cuore e nella memoria di coloro che l’hanno conosciuto, che magari sono da lui stati salvati dalla morte, o semplicemente hanno sentito parlare di lui.

E tra essi, Mark Doyle non ha dimenticato, e tanti anni dopo, ha voluto pagare il suo debito verso il Capitano, producendo per la BBC il documentario, A Good Man in Rwanda (“Un Uomo Buono in Ruanda“) , che rende infine giustizia al coraggio e all’altruismo di questo Uomo Buono.

Il 16 aprile scorso, dopo avere assistito alla proiezione del documentario, il Principe Zeid Ra’ad Zeid al-Hussein, Ambasciatore del Regno di Giordania all’Onu, ha dichiarato che il Capitano Mbaye Diagne è “il più grande eroe delle Nazioni Unite” e proposto al Consiglio di Sicurezza di dedicargli una medaglia.

E finalmente questo 8 maggio, a distanza di quasi vent’anni dalla morte del Capitano, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso all’unanimità di creare una “Medaglia del Capitano Mbaye Diagne per onorare i membri del personale dell’Onu che “abbiano affrontato pericoli estremi nel compimento della propria missione”.

Il Consiglio ha ricordato “con profonda riconoscenza” che il Capitano “ha salvato, senz’armi e affrontando estremi pericoli, la vita di centinaia, forse di un migliaio, di ruandesi durante il genocidio del 1994”. Il Consiglio “è profondamente dispiaciuto” che dopo la morte del Capitano, la sua famiglia “non abbia mai ricevuto alcun ringraziamento da parte del segretariato dell’Onu”.

Auguriamoci che al di là di una pur bella e giusta medaglia, ora l’Onu faccia concretamente qualcosa per la famiglia del Capitano, che ha affrontato a lungo, in silenzio, con dignità, la sorte che il destino riserva alle vedove e agli orfani di questa terra. E speriamo che più genealmente, le Nazioni Unite non continuino per altri venti anni ancora a dimenticare le famiglie delle migliaia di loro servitori che in questo mondo sempre più devastato dalle guerre, dal 1945 ad oggi hanno dato e danno la vita per la pace, come ha fatto anche, tra gli altri, la nostra povera Barbara De Anna.

Sito dell’Associazione del Capitano Mbaye Diagne per la Cultura di Pace
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