Eppure è col design che inevitabilmente in Italia “si incontra e si scontra” arrivando a concludere su un’apparente inconciliabilità tra le soluzioni di questi “innovatori” e il nostro design, esprimendo una sedicente contrapposizione, tra l’altro poco compatibile con l’ibridazione stessa tipica del nostro design. Così a volte alcuni maker sembrano dirti che da una parte c’è il bene, c’è il futuro, c’è la speranza, dall’altra c’è il design italiano. Che da una parte c’è l’innovazione con loro, dall’altra i designer e le aziende italiani.
Negli ultimi tempi, però, stiamo assistendo nella prassi a qualche segnale di superamento di questo atteggiamento teoricamente antitetico: da una parte alcune aziende italiane, con i loro tempi e i loro modi, stanno provando a recepire e adattare ai loro casi questi messaggi di cambiamento, imparandone il vocabolario e valutando l’opportunità di assorbire forme di esperienze eterologhe anziché ignorarle; dall’altra parte alcune realtà legate alla comunità dei maker sembrano aver capito che è davvero complicato e forse controproducente, almeno data la storia del nostro paese, escludere il sistema della produzione tradizionale da uno scenario di innovazione convincente.
In un Salone del Mobile che ricorderemo più per il bel clima (meteorologico e psicologico) piuttosto che per l’emersione di progetti memorabili che ci hanno fatto battere il cuore, chiunque si è trovato a passare da Valcucine in quei giorni non ha potuto non registrare, e riferire a sua volta, che lì stava succedendo qualcosa di speciale. Qualcosa di piccolo e speciale, che realisticamente di questi tempi sembra un obiettivo non solo ragionevole per l’economia del design italiano ma anche centrato coi suoi mezzi e le aspirazioni realizzabili. In pochi giorni si è scatenato perciò un passaparola che ha fatto sì che lo showroom di corso Garibaldi si riempisse giornalmente di studenti, designer, nerd appassionati, coppie di sposini in cerca della propria cucina, giornalisti, insegnanti e una squadra autorevole di professionisti (Giulio Iacchetti, Stefano Maffei, Dario Buzzini, Massimo Menichinelli, Enrico Bassi, Zoe Romano, Francesco Zurlo e il team di Arduino) che hanno affiancato a vario titolo l’instancabile lavoro degli 11 selezionati e dei Dotdotdot.
Con un investimento umano elevato ma un costo economico sostenibile, Valcucine ha fatto di nuovo una gran bella figura, umanizzando anche il suo posizionamento alto e un po’ inaccessibile per il grande pubblico. Ma soprattutto ci hanno fatto una bella figura loro, i maker, agli occhi del sistema scettico e, a dire loro, “retrogrado” del design italiano dimostrando, anche a se stessi, queste cose: la prima è che il freno linguistico su quei concetti un po’ pomposi di open source, fabbricazione digitale e making in realtà attinge a pratiche comprensibilissime, condivisibili e in parte già condivise dalla maggior parte dei progettisti nel loro quotidiano odierno; che anche in una sola settimana è possibile creare dei risultati belli e intelligenti, pensati sulle esigenze degli utenti e contemporaneamente costruiti per poter essere scaricabili, modificabili e riadattabili a nuove esigenze; che, anche in un sistema apparentemente competitivo e viziato come quello del design, è possibile originare spontaneamente e informalmente dei gruppi di lavoro elastici in cui l’ego autorale di chi-ha-fatto-cosa convive con la disponibilità di mettere al servizio degli altri proprie competenze; e soprattutto che lavorare per con e in un’azienda, anche per chi ha impostato la propria autorevolezza contro, ha i suoi vantaggi.