Anche se ho imparato che di fronte a notizia tragiche di cronaca sarebbe meglio limitarsi a ricordare  ed eventualmente denunciare, senza lasciar spazio al dolore – che talvolta nasce dall’incontro tra un destino tragico di una persona sconosciuta e vissuti personali infantili di abbandono e di sofferenza che riguardano più noi che, forse, una reale empatia verso la vittima – nel caso dell’uccisione di Cristina Zamfir mi riesce quasi impossibile mettere a tacere un sentimento di tristezza profonda. Specie quando vedo, oggi pubblicata dai giornali, il viso di sua madre portata davanti al palo legata al quale è morta sua figlia. A sua volta madre di una bimba, come spiegavano i sottotitoli del giorno dopo il delitto che purtroppo non avrei mai voluto leggere.

Ben poca consolazione è venuta dall’arresto quasi immediato di Riccardo Viti (già autore di sevizie e violenza), che anzi ricorda che, visti i precedenti, se fosse stato preso prima oggi non ci sarebbero né una figlia orfana né una madre orfana di figlia. Come, forse, non ci sarebbero se gli abitanti che durante quella notte avvertirono chiaramente i lamenti della ragazza che stava morendo dissanguata avessero almeno chiamato la polizia, anche se non c’è dubbio che delle condizioni di degrado della zona in cui la ragazza si prostituiva fa parte anche una comunità che al degrado reagisce, appunto, con l’isolamento e la chiusura. 

E in questo quadro di abbandono, anche mediatico, visto che le prostitute sono donne di serie b, donne che arrivano alla cronaca solo se brutalizzate e uccise, Cristina Zamfir ha vuto la sfortuna di incontrare sulla sua strada un sadico. Perché il delitto di Firenze è diverso dai i classici femminicidi, che in genere colpiscono mogli e fidanzate che hanno deciso di separarsi e scegliere una vita di autonomia. “Come mai Riccardo Viti non ha seviziato e ucciso, ad esempio, la donna delle pulizie ucraina che – almeno secondo l’anagrafe – era sua moglie?”, si chiede lo psicoanalista Sergio Bevenuto, autore di numero pubblicazioni sulle perversioni. “Credo che la risposta sia proprio nel carattere sadico dell’uomo:  Nel delitto sadico – che non a caso è seriale, potrebbe continuare all’infinito – è tutt’altra cosa: il sadico vuole far soffrire fino all’orlo della morte La Donna, o, se preferite, tutte le donne”.

Ma perché accanirsi contro una donna delle più deboli? ” E’ questo il capolavoro del rancore sadico, perversione così barocca”, risponde lo psicoanalista, “perché la prostituta è la più innocente. Il sadismo gode nel punire non il colpevole – la bellissima donna che ti guarda dall’alto in basso e che ti rifiuta come partner in un letto – ma l’innocente.  Seviziare la puttana è infierire sulla santa. Il godimento del sadismo non è tanto nel vedere la donna soffrire: ma nel sapere che questa sofferenza è ingiusta, e che grida vendetta. Perché solo nella punizione ingiusta dell’innocenza – le prostitute sono le sole donne che non lo rifiutino – il sadico rinnova, attualizza, il danno profondo da cui la sua passione si scatena: il danno di essere un uomo, di essere qualcuno che deve mendicare sesso e amore da esseri troppo potenti chiamati “donne”. Il sadismo è la rivolta implacabile contro la Donna”. 

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