Le prime testimonianze nel processo della tragedia del giugno 2009. Gli audio registrati dei dipendenti di Ferrovie a bordo del treno: "Esplode tutto, la stazione non c'è più". In aula raccontano: "Dispositivi per segnalare il deragliamento? Nessuno, ci siamo basati sulla nostra esperienza". La "ragazza coraggio" (24 anni): "Ho perso tutti i miei familiari, non mi sono più ripresa"
“Esplode tutto, la stazione non c’è più”. Uno dei macchinisti che era alla guida del convoglio 50325 Trecate-Gricignano, Andrea D’Alessandro, aveva già capito cosa stava per succedere a Viareggio la sera del 29 giugno 2009, poco prima che la muraglia di Gpl fuoriuscisse da una delle 14 cisterne e il fuoco entrasse nelle case di via Ponchielli uccidendo 32 persone. Le parole che D’Alessandro ha pronunciato quella notte – nella telefonata al dirigente operativo della stazione di Viareggio poco prima di mettersi in salvo – sono riemerse come fantasmi nell’aula del Polo fieristico di Lucca, dove si celebra il processo a 33 imputati (oltre a otto società), tra cui l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti e i vertici della holding. I reati contestati vanno da disastro ferroviario a omicidio plurimo colposo, incendio colposo e lesioni colpose. Dopo quasi due mesi di stop, oggi (mercoledì 14 maggio) il dibattimento è entrato nel vivo con le prime deposizioni dei testimoni, nove in tutto.
Le più attese erano quelle dei due macchinisti, Roberto Fochesato e Andrea D’Alessandro. E proprio il loro racconto ha trascinato i familiari delle vittime presenti in aula e le decine di avvocati difensori e di parte civile nell’inferno di quella sera. Le domande dei sostituti procuratori Salvatore Giannino e Giuseppe Amodeo hanno permesso di ricostruire gli attimi precedenti al deragliamento e all’esplosione del Gpl che ha raso al suolo l’intera via Ponchielli, la strada che costeggia la ferrovia. D’Alessandro, davanti ai giudici di primo grado Gerardo Boragine, Valeria Marino e Nadia Genovese, ha raccontato di avere sentito “un forte sferragliamento che proveniva dalla cisterne” appena entrati nella stazione di Viareggio e di aver ricevuto la telefonata dal capo stazione che gli informava del deragliamento.
D’Alessandro, a quel punto, ha tirato il freno di emergenza che ha arrestato la corsa del treno (che andava a una velocità di 90 chilometri orari in un punto dove il limite era 100) 500 metri dopo, appena fuori dalla stazione. A quel punto, i due macchinisti di Trenitalia hanno avuto il tempo di disattivare la linea elettrica del mezzo, prendere i documenti e mettersi in salvo attraversando i binari e scavalcando il muretto di protezione “per raggiungere la vicina Croce Verde”. E’ da qui che D’Alessandro telefona al dirigente della stazione per avvertire cosa stesse per succedere. Una previsione che si avvera pochi istanti dopo. “Abbiamo sentito un’esplosione e visto le fiamme alzarsi in cielo”, ha ricordato Fochesato, che da quella notte “non vuol più sentire parlare di treni e ferrovie“. “Dopo lo scoppio, a pochi metri da me – ha detto il macchinista – ho visto una donna con la testa in fiamme. Io non ho avuto danni fisici, ma sicuramente ne ho avuti a livello di testa“.
Le parole dei due dipendenti sono state importanti per il pool della procura di Lucca, guidato da Aldo Cicala, convinta che la strage sia stata la diretta conseguenza delle scarse misure di sicurezza in cui viaggiano i convogli che trasportano sostanze pericolose. I due macchinisti hanno confermato che all’interno della locomotiva non c’era nessuno strumento che potesse rivelare un eventuale deragliamento: “Solo grazie alla nostra esperienza possiamo capire se c’è qualcosa che non va”. Nessuna telecamera, nessun dispositivo, neppure uno specchietto retrovisore che potesse far capire che la prima cisterna stesse uscendo dai binari. Uno degli avvocati di parte civile, Gabriele Dalle Luche, ha chiesto ai macchinisti se hanno mai sentito parlare di “dispositivi anti-svio” (che secondo alcune tesi avrebbe potuto limitare la probabilità dell’incidente). Ma entrambi hanno risposto di non averne mai sentito parlare.
Subito dopo la deposizione di D’Alessandro e Fochesato, hanno deposto il capostazione Carmine Magliacane, 63 anni, oggi in pensione, e Giovanni Cosentino, il “deviatore” della stazione. Entrambi videro il deragliamento e fu anche grazie a loro che non ci furono altri morti. “Ho chiuso il segnale all’Intercity che proveniva da Roma e ho avvertito il dirigente centrale di La Spezia e Pisa e poi anche quello di Lucca che ha fatto fermare un regionale a Massarosa”, ha raccontato l’ex capostazione in aula. “Se il treno proveniente da Roma fosse passato due minuti prima si sarebbe fermato proprio dove è successo il botto”, ha aggiunto Magliacane. Anche Cosentino scese dal primo binario e raggiunse il convoglio ormai fermo: “Arrivai a 50 metri dalla locomotiva, vidi la nuvola di gas e scappai. Poi sentii l’esplosione che fortunatamente non mi investì”.
In aula, poco prima delle deposizioni, è stato proiettato un filmato: un collage di video originali dei vigili del fuoco e le chiamate disperate degli abitanti della zona al centralino del 118. “C’è un signore che non si muove sdraiato in strada. C’è fuoco ovunque, vi prego mandate qualcuno”, piange al telefono una donna. “È esploso un treno alla stazione”, grida un uomo alla centralinista del 118 mentre sullo schermo dell’aula scorrono i fotogrammi di quella notte: le prime scintille sputate dal convoglio che sta per deragliare; teli bianchi stesi sui corpi delle vittime; una squadra di pompieri che riesce a farsi largo nelle rovine di via Ponchielli per mettere in salvo il piccolo Leonardo Piagentini (oggi 13enne), che si salverà insieme al padre Marco (sfregiato dal fuoco e assente in aula per visite mediche), mentre la madre Stefania e i due fratelli Lorenzo e Luca di 2 e 5 anni perderanno la vita.
Immagini troppo dure da guardare per i familiari delle vittime che hanno trattenuto con fatica le lacrime. Perché le ferite di cinque anni fa sono ancora aperte. “In casa c’erano mamma, papà, mio fratello e mia sorella più piccola di tre anni”, ha ricordato davanti ai giudici Ibtissam Ayad, 24 anni cittadina marocchina che abitava in via Ponchielli, la strada dilaniata dall’esplosione della cisterna. Nella tragedia ha perso l’intera famiglia: suo padre Mohamed, sua madre Talib Aziza, suo fratello Hamza e la sua sorellina di 3 anni, Iman. “Abbiamo visto una nuvola di gas, io sono uscita per dare l’allarme ai vicini e quando ero in strada ho sentito l’esplosione. Le fiamme hanno ucciso tutti i miei familiari”. Ibtissam ha avuto bisogno di un anno e mezzo di cure psicologiche, ma nonostante questo ha abbandonato gli studi per diventare pasticcera: “Non mi sono più ripresa”. Quelle stesse fiamme hanno invece risparmiato la vita di Laura Galli, anche lei abitante di via Ponchielli, che dopo il 29 giugno ha trascorso 4 mesi in diversi ospedali per curare le ustioni. “Quella sera ho sentito un boato, la casa che oscillava – ha raccontato – ho pensato a un terremoto. Sono andata di corsa in camera di mio marito, che stava dormendo. Gridavamo aiuto, da fuori ci hanno sentito. L’ultimo ricordo che ho sono le braccia di un vigile del fuoco che mi sollevano”.
Il tribunale ha accettato tutta la lista di testimoni presentata dalla procura e dai difensori, tra i quali Gianni Letta, Diego Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo. In aula era presente l’amministratore delegato di Trenitalia, Vincenzo Soprano, unico tra i manager imputati ad aver partecipato all’udienza. Fuori dal Polo fieristico di Lucca, prima dell’inizio del dibattimento, l’Assemblea 29 giugno e i Ferrovieri per la sicurezza hanno esposto bare di cartone, sulle quali sono stati scritti i nomi delle 32 vittime.