Domenica scorsa sono andato a sentire Grillo che presentava i candidati del M5S per le elezioni amministrative padovane. Poche settimane prima, in verità, ero tra le migliaia di persone che, sempre a Padova, hanno assistito al “comizio a pagamento” (cit.) del suo Te la do io l’Europa tour. Non avendo mai visto Grillo dal vivo, e diffidando delle ricostruzioni a mezzo stampa, ero curioso di sapere che cosa realmente dicesse nelle sue apparizioni pubbliche, tanto più sulla spinosa questione europea, alla quale ha effettivamente dedicato gran parte di entrambi gli interventi.
Checché se ne pensi, ogniqualvolta ci si prenda la briga di ascoltarli senza pregiudizi, Grillo e i suoi mettono in fila, una dopo l’altra, una serie di programmatiche smentite delle esternazioni che ‒ per faciloneria o faziosità (con netta prevalenza della seconda) ‒ si suole loro attribuire.
Ma veniamo ai contenuti concreti, che confutano uno per uno molti del pregiudizi sul Movimento:
1. Quanto alla questione veneta, recentemente rinfocolata per via del sondaggio-referendum del 21 marzo, Grillo ha dichiarato esplicitamente “non sono un secessionista”. Eppure nel primo dei due passaggi padovani si era presentato al Palafabris barricato in un ‘tanko’ di cartone (il panzer-totem rudimentale degli ultimi ‘indipendentisti’) ed esordendo con un inequivocabile: “No volemo star più in questo Stato de mona, va ben?”. Allora, che dobbiamo pensare: Grillo non sa quello che dice, oppure cambia agilmente opinione in base alle convenienze elettorali del momento? In realtà il suo punto di vista è chiaro per chiunque voglia intenderlo: “La secessione non la combatti arrestando la gente, ma facendo credere in uno Stato che non c’è più”. Al di là di qualche battuta iniziale, quindi, Grillo non si è affatto schierato per la secessione; a ben vedere si è anzi espresso in termini del tutto opposti: l’unico rimedio possibile contro le spinte indipendentiste ‘padane’ è uno Stato che funzioni, dove, anzitutto dal punto di vista fiscale, vengano a cadere le condizioni politico-economiche per le quali (sono dati di Luca Ricolfi, Il sacco del Nord) ogni anno 50,6 miliardi di Euro vengono distratti dal Nord per affluire al Sud. Perché mai, allora, se nella sostanza Grillo si è schierato per una maggior ‘giustizia territoriale’ gestita a livello centrale, appena dopo il suo intervento non c’era giornale che non titolasse “Grillo inneggia alla secessione”?
2. L’Europa. Quando l’obiettivo è osteggiare Grillo, si fa subito leva sul suo presunto antieuropeismo. Che però, come tale, non sussiste. La posizione di Grillo, ribadita in modo articolato nello spettacolo, è essenzialmente questa: non è pensabile che l’Europa si risolva essere un cappio fiscale il cui unico esito consiste nell’impoverimento strutturale di sempre più ampi strati della sua popolazione. A fronte del loro enorme potenziale ‘ricattatorio’ (vale anche per loro il motto too big to fail), gli stati più deboli ‒ non solo Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, ma, secondo Grillo, anche la Francia ‒ debbono trovare un’intesa politica che permetta loro di ridiscutere sia il cosiddetto fiscal compact che le misure che disciplinano l’accesso al prestito in base al Meccanismo Europeo di Stabilità. Grillo ha inoltre caldeggiato l’introduzione degli eurobond per ridistribuire il debito dei singoli paesi a livello europeo, insistendo sul fatto che l’Unione europea deve tornare ad essere una comunità, ossia che, in sintesi: si esce dalla crisi con più Europa, non certo uscendo dall’Euro. Direi che, al di là delle diverse strategie retoriche, la posizione di Grillo è affatto affine a quella portata avanti da Syriza in Grecia: il fatto che nessuno, nemmeno la Germania, possa permettersi il default di intere nazioni, conferisce a quest’ultime un’enorme potenziale di negoziazione. Perché allora gli strilloni dello status quo perseverano nell’accomunare la posizione eurocritica di Grillo con l’antieuropeismo selvaggio della Lega Nord? A chi fa comodo istituire quest’equazione?
3. La presunta ignoranza dei grillini. Gran parte del secondo incontro è stata riservata alla presentazione dei candidati per le elezioni amministrative. In relazione alle elezioni comunali padovane, è stata dedicata particolare attenzione alla cessione, operata dalla precedente amministrazione di centrosinistra, di Acegas-Aps al Gruppo Hera, una multiutility con sede a Bologna (e gestita di fatto dal Pd). Ora (non mi è possibile soffermarmi sui dettagli), dalla ricostruzione effettuata, emerge in tutta chiarezza come non si sia trattato di una semplice cessione ma di una vera e propria svendita (ovviamente a danno della collettività) per la quale un’azienda avente un valore effettivo compreso tra gli 800 e i 1.100 milioni di euro è stata venduta per soli 289 milioni. Ebbene, per circa mezz’ora due tecnici, David Borrelli e Giorgio Burlini, hanno illustrato analiticamente con tanto di slide ‒ e non in una sala conferenze, ma innanzi a un pubblico nutritissimo ‒ tutti gli stratagemmi economico-fiscali che hanno permesso all’amministrazione Zanonato di calcolare decisamente al ribasso l’effettivo valore di AcegasAps. Hanno spiegato quali siano i parametri da considerare nelle operazioni di acquisizione e fusione aziendale: che cosa sia il valore di una company stand alone, come debbono essere calcolate le cosiddette sinergie per la quali il valore di una business combination risulta maggiore del valore delle due aziende considerate in modo indipendente, ecc. Questo per dire che cosa? Che per la prima volta da quando mi capita di assistere a comizi o assemblee pubbliche, mi sono trovato innanzi ad un esempio di comunicazione altamente specializzata, dove, senza retorica, si è provveduto alla veicolazione di un contenuto tutt’altro che immediato in modo approfondito, tecnicamente analitico e tuttavia accessibile. Sembrava di stare a una lezione di economia aziendale, ma in platea c’erano migliaia di persone (peraltro attentissime). Qualcosa di impressionante se si pensa da un lato al livello culturale medio di qualunque bacino elettorale, dall’altro all’ammiccante politica renzusconiana dove, tra spot e boutade, la regola è: sproloquiare su tutto a patto di non dir nulla.