Fischi e risatine quando è apparsa sul grande schermo interpretando Grace di Monaco; applausi e tappeto rosso quando ha sfilato nei panni di se stessa. Come si spiega il dualismo con cui il Festival di Cannes ha accolto Nicole Kidman? Forse l’interpretazione in sé non c’entra, per quanto sia duro per un’attrice calarsi nei panni di un’altra attrice; ma di sicuro c’entra lo scarto tra diva di oggi e l’icona di ieri, tra lo sguardo e la memoria. Nel caso del film che ha inaugurato il Festival di Cannes, tra la Kidman e Grace Kelly coefficiente di somiglianza medio basso, e addirittura sottozero nell’abbinamento Ranieri di Monaco-Tim Roth.

Senza somiglianza non può esserci verosimiglianza; è la prima regola del biopic, il genere cinematografico ispirato alla vita dei grandi del passato che mai quanto oggi fa tendenza, tanto che proprio a Cannes si annuncia come il più praticato; oltre a Grace di Monaco stanno per arrivare sulla Croisette Mr. Turner di Mike Leigh dedicato al pittore della luce, Sils Maria di Olivier Assayas sull’attrice Maria Enders, Saint Laurent di Bertrand Bonello sul celebre stilista, Jimmy’s Hall di Ken Loach, sull’attivista irlandese James Gralton, e Foxcatcher di Bennett Miller, la storia di John Du Pont e dell’omonima dinastia della chimica.

E allora, qual è la prima regola di un buon biopic? Nel linguaggio appiattito del cinema contemporaneo il peso della regia vale sempre meno, sono altre le cose che contano; per esempio, i protagonisti giusti, ma soprattutto la sintonia autentica tra interpreti e modelli. Qui, sempre più spesso, casca l’asino. La somiglianza non è un disegno dal vero, come ci ha insegnato il Novecento, e il cinema stesso ha dimostrato con molti esempi; per stare a quelli più recenti, Meryl Streep è stata più thatcheriana della Thatcher, Daniel Day Lewis più lincolniano di Lincoln, Naomi Watts spenceriana quasi quanto Lady Diana (di più, era umanamente impossibile); però non mancano casi contrari, anzi, contrarissimi. La Kidman nei panni di Grace Kelly è almeno sostenibile sul piano teorico (due sex-symbol uguali e contrari, la finta freddezza degli anni 50, la finta sensualità degli anni Zero), ma quando le si è chiesto di diventare Virginia Woolf in The Hours, si scivolò direttamente nel grottesco; e con tutto il rispetto per Anthony Hopkins, dobbiamo ancora capire che cosa c’entrasse fisicamente con Richard Nixon. Il regista di Grace di Monaco Olivier Dahan è recidivo: nel biopic su Edith Piaf da lui diretto, La vie en rose, scelse Marion Cotillard come interprete, trascinando la cantante simbolo dell’esistenzialismo, il cui magnetismo non si basava certo sulla bellezza, nei territori del polpettone melò.

A Hollywood, comunque, si sbaglia da professionisti; e da noi? In Italia il cinema affronta di rado il biopic (non ci sono i capitali) salvo qualche tentativo non troppo incoraggiante, come Toni Servillo mostrificato nei panni del Divo Giulio. In compenso, la fiction televisiva rigurgita di santi, papi, capitani d’industria e campioni dello sport trasformati in altrettanti santini, e di conseguenza affidati sempre alle stesse facce, quei faccini angelici che un tempo avrebbero fatto furore nel fotoromanzo, e da lì non si sarebbero mossi. Oggi i fotoromanzi non ci sono più, ma il loro spirito aleggia un po’ dappertutto in video; accade così che Paolo VI assuma le sembianze di Fabrizio Giffuni, Sant’Agostino quelle di Alessandro Preziosi, Giorgio Pasotti quelle di Garibaldi, Daniele Liotti quelle di Don Gnocchi… E siccome questi attori si somigliano parecchio tra loro, finiamo per convincerci che Paolo VI, Sant’Agostino, Garibaldi e Don Gnocchi erano tutti parenti. Quando poi scopriamo che Oriana Fallaci sta per reincarnarsi su Raiuno nelle fattezze eteree di Elisa di Rivombrosa, alias Vittoria Puccini, oltre alla favola abbiamo anche la morale. Non solo la storia è scritta dai vincitori, ma anche la vita è riscritta dagli sceneggiatori.

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2014

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