“La Dolce Vita, il Neorealismo, la grande commedia anni Sessanta, la cucina italiana, gli spaghetti al dente, il tramonto sulla costiera, la notte del Bernabeu e il cielo è azzurro sopra Berlino. Lo stile, il gusto, l’eleganza, i giganti della moda, i capitani dell’industria, i maestri dell’artigianato. L’impero romano, il Colosseo, il Rinascimento, le invenzioni di Leonardo, i viaggi di Marco Polo, le scoperte di Colombo, le Stagioni di Vivaldi. Poi Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Pinocchio e la Divina Commedia. Il nostro è stato un grande passato. Ma adesso è ora di guardare avanti, di costruire qualcosa di cui essere di nuovo fieri. Per questo non serve la nostalgia. Serve l’energia”. La voce impostata fuori campo, carica di commosso pathos, sciorina questo corposo campionario di banalità e luoghi comuni sul presunto eccezionalismo italico nello spot televisivo per la campagna istituzionale di Enel Energia 2014.
Ancora più esplicito, nella sua sintetica petulanza sciovinistica/campanilistica, lo script di annuncio dei Campionati tennistici del Foro Italico: “Tutti hanno il tennis, solo noi abbiamo Roma”.
Forte della conquista del premio Oscar, il film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è risultato un cantiere di ispirazioni per i creativi nostrani. Le cui antenne sensibili hanno mixato l’impatto mediatico del successo mondiale di un prodotto Made in Italy, di una pellicola dalle particolari caratteristiche, con il cambio di clima che si respira nel Palazzo (pasoliniano), con la conquista della pole position governativa da parte di Matteo Renzi; il cui effetto più significativo sugli immaginari collettivi è stato quello di modificare i criteri guida delle retoriche politiche vigenti. D’altro canto, che questo significhi anche la transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica è questione ancora aperta. Per ora indica soltanto un cambio di stile comunicativo, a misura delle caratteristiche del nuovo speaker: un giovinotto toscano, come spesso capita ai suoi conterranei poco portato per le lingue (hohahola con a hannuccia), convinto che l’universo si circoscriva tra Ponte Vecchio e Fiesole; visto che anche lui l’arbasiniano viaggio oltre Chiasso non sembra averlo compiuto. Che identifica il massimo della desiderabilità nell’armamentario da Neoborghesia cafona: la Ferrari Testarossa su cui si sdraia avvolta in fuseaux di pelle nera Lady Matacena.
Se il mood dominante nel ventennio berlusconiano era quello dell’eccezionalità imprenditoriale, la nuova stagione punta sull’ottimismo di maniera dello “straordinario italico”. Il Paese più bello ed elegante del mondo, dove si mangia meglio, con le donne più seducenti, dove tutti vorrebbero venire.
Tanto che Renzi, sempre più clone di Superbone (il ragazzotto soprappeso e petulante del fumetto anni Sessanta il Monello), ma anche prossimo presidente semestrale dell’Ue, dichiara con l’abituale sicumera sul patetico, propria dell’improvvisato: “l’Europa la cambiamo noi”. Ma va là.
Difatti…
Difatti si scopre che i flussi turistici europei, dopo la Francia e la Spagna, ormai ci antepongono pure la malandatissima Grecia. E mentre la nostra capacità attrattiva nell’ultimo anno si è ulteriormente ridotta dello 0,5 per cento, i non propriamente superdotati in materia di clima e bellezze paesi baltici incrementano il loro target di una percentuale a due cifre.
Negli Stati Uniti l’aggettivazione del gusto eccellente per quanto riguarda la triade food-fashion-forniture (cibo, moda e arredamento) è “french”, mica “italian”. Le copertine dei giornali tedeschi a noi dedicate privilegiano l’inquietante (e umiliante) segnalazione delle penetrazioni mafiose nel tessuto urbano dell’intera penisola; nel crescente abbandono da parte dei vacanzieri di Germania delle tradizionali mete marittime romagnole, giudicate sempre più costose e inquinate. Le tanto strombazzate attrattive artistiche e paesaggistiche del cosiddetto Belpaese degradano per la totale assenza del fattore che caratterizza nazioni e popoli davvero civili e rigorosi: la priorità attribuita alla manutenzione. Pensate al disastro di Pompei in via di sbriciolamento e poi spostate l’obbiettivo mnemonico sulle coste dal Tirreno all’Adriatico, sommerse dalle colate di cemento. Ricordate i decibel spaccatimpani della colonna sonora ininterrotta che si suona nelle nostre stazioni turistiche, al livello di inciviltà motoristica del nostro traffico e gettate uno sguardo sulle nostre città d’arte come letti sfatti. Riflettete – infine – sullo sport nazionale di considerare lo straniero un pollo da spennare. Dopodiché sarete in grado di rispondere alla domanda secca: perché mai gli stranieri preferiscono andare altrove?
Forse sarebbe opportuno rivedere anche le grandi illusioni sull’italian fashion, in sostanza lo straccetto firmato (quel Made in Italy ormai proveniente in gran parte dai laboratori dello sfruttamento a Estremo Oriente), visto che l’haute couture parla da sempre un’altra lingua, quella dei nostri cugini d’Oltralpe (certo, sovente un po’ albagiosi, quanto ben più di noi capaci di valorizzare e valorizzarsi).
Dunque una collezione di miti provinciali, coltivati da autarchici disinformati: l’Italia non è il grande sogno mondiale di nessuno (un po’ come gli States non sono l’ideale dell’umanità, come invece credono gli sciovinisti retrogradi a stelle-e-strisce dell’America profonda e un po’ di Berluscones brianzoli).
Il patriottismo della stagione renziana è solo trionfalismo maldestro. A fronte della considerazione che una vera stagione patriottica presupporrebbe la presa d’atto delle catastrofi nazionali intervenute in questi anni, premessa indispensabile per una effettiva opera di ricostruzione. E – insieme – la consapevolezza dei treni che si sono perduti. Magari per provare a riacchiapparli.
Quanto non avverrà se continueremo a raccontarci balle. Magari per non affrontare problemi spinosi. Come quello che non si inverte la marcia attuale al declino economico facendo affidamento sul sistema d’impresa dato; in cui questo ceto imprenditoriale – a cui si pensa di delegare la missione della ripresa dandogli mano libera (precarizzando il lavoro) – è lo stesso che siede immutato sulle macerie di imprese dove innovazione e investimenti (cioè il mandato di un ceto imprenditoriale che si rispetti) latitano almeno dalla fine degli anni Settanta.
Problemi che non si affrontano con il neokarma eccezionalistico, buono soltanto per campagne d’immagine mendaci. Ma estremamente funzionale per tenere in stallo la pubblica opinione e consentire agli occupanti del “Belpaese che fu” (il ceto affaristico, imprenditoriale e politico, presidiatore di canali dove transitano risorse e decisioni) di continuare nel loro saccheggio. Indisturbati proprio perché invisibili.