Uno studio della Banca mondiale ricostruisce dati e meccanismi di un fenomeno che non riguarda più solo le acque somale: nei primi tre mesi del 2014 si è verificato il primo arrembaggio al largo dell'Angola e in Indonesia si sono registrati 18 attacchi. Tra 2005 e 2012 nelle tasche dei corsari e dei loro finanziatori sono entrati tra i 340 e i 410 milioni di dollari, reinvestiti sia in attività criminali - tratta degli essere umani, coltivazione del khat - sia nell'economia legale
Un giro d’affari di almeno 50 milioni di dollari l’anno, senza alcuna flessione nemmeno nel periodo peggiore della crisi. Compensi che per i livelli più bassi della gerarchia partono dai 30mila dollari e possono arrivare fino a 75mila dollari. Per i finanziatori, infine, “commissioni” da decine di milioni. E’ il business della pirateria somala attiva al largo del Corno d’Africa, fotografato da uno studio della Banca Mondiale in collaborazione con l’Interpol. I proventi di questa “industria”, naturalmente, consistono nei riscatti chiesti agli armatori per la liberazione dell’equipaggio e la restituzione di nave e carico, che – soprattutto se costituito da petrolio greggio o raffinato – ha di per sé un valore intrinseco molto elevato.
La World Bank stima che tra il 2005 e il 2012 nelle tasche dei corsari e dei loro finanziatori siano entrati tra i 340 e i 410 milioni di dollari. Il riscatto medio si aggira tra i 9 e i 12 milioni, e di solito – salvo rari casi di blitz militari portati a termine con successo – è l’unico mezzo per salvare uomini e mezzi. Nel dossier Pirate Trails viene anche motivato, numeri alla mano, l’ascendente che questa attività criminale ha avuto e continua ad avere su parte della popolazione dei Paesi della regione: il reddito medio di un somalo, nel periodo considerato, si attestava intorno ai 600 dollari annui, mentre un pirata operativo di basso livello, insomma la manovalanza, poteva guadagnare per ogni singola operazione un compenso compreso tra i 30mila e i 75.000 dollari, pari rispettivamente a 22mila e 55mila euro. Cifre difficili perfino da immaginare per chi vive con poco più di 50 dollari al mese, ma ancora irrilevanti se paragonate alla quota di ogni riscatto spettante per convenzione ai finanziatori di questo lucroso giro criminale: ognuno ha diritto a una quota variabile tra il 30 e il 50% della cifra complessiva, che si aggira appunto sui 10 milioni.
Parte dei proventi resta in loco e viene reinvestita per migliorare l’attrezzatura in dotazione ai pirati: armi, mezzi di comunicazione tecnologici, manutenzione delle imbarcazioni e delle navi madri. Il grosso dei proventi però lascia la Somalia, gestito da nuclei criminali che sfruttano le popolazioni povere della costa. Gruppi composti da ex militari o funzionari pubblici, ma anche pescatori o altri lavoratori riusciti a fare fortuna trovando un posto di rilievo nell’industria della pirateria. Oltre che attraverso bonifici bancari, servizi di money transfer e contrabbando di denaro contante oltre le frontiere, secondo lo studio della Banca Mondiale una quota rilevante dei capitali ricavati dai riscatti viaggia tramite canali informali, anonimi e su base esclusivamente fiduciaria, con destinazioni prevalenti il Kenya, il Gibuti e gli Emirati Arabi (Dubai è il centro finanziario attorno a cui gravitano molti paesi della zona, sia per le attività lecite che per quelle illecite). Un flusso di denaro viaggia poi verso altre attività della criminalità organizzata africana: tipicamente la tratta degli essere umani, compreso lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e, in Kenya, la coltivazione del khat, pianta da cui si estrae la sostanza stupefacente più diffusa a livello locale. Una parte viene poi riciclata in attività legali: ristorazione, commercio al dettaglio, pompe di benzina. Non c’è invece evidenza di un ruolo rilevante nel boom del mercato immobiliare in alcuni Paesi africani.
L’altro dato interessante che emerge dagli studi internazionali è un cambiamento della geografia degli attacchi. Da un lato, infatti, le missioni internazionali di pattugliamento della porzione di Oceano Indiano davanti al Corno d’Africa stanno dando frutti: secondo l’International Maritime Bureau, nei primi tre mesi del 2014 i pirati somali ne hanno portati a termine solo 5 e in totale ne sono stati registrati 49, il numero più basso mai registrato dal primo trimestre 2007, quando i casi noti furono in tutto 41. Ma il problema è che il dato complessivo maschera un boom degli arrembaggi in Africa occidentale: ben 12 attacchi, tra cui il primo mai registrato in Angola. Scendono invece, pur restando su numeri non indifferenti, gli atti di pirateria compiuti in Indonesia: dai 25 del primo trimestre 2013 ai 18 dei primi tre mesi di quest’anno.
La pirateria contemporanea, che ha ben poco ha a che vedere con velieri e casse di rum di salgariana memoria, trae origine principalmente dalla disgregazione dello Stato somalo seguita allo scoppio delle guerra civile nei primi anni ’90 e prospera nel decennio seguente continuando a sfruttare l’assenza di un potere centrale nel paese africano, vivendo la sua stagione d’oro alla fine degli anni 2000. Sono datati 2011 tre dei casi più significativi che hanno riguardato navi mercantili italiane: il sequestro della petroliera Savina Caylyn della compagnia Fratelli D’Amato, il cui equipaggio rimase nelle mani dei corsari somali per oltre 10 mesi, quello della Rosalia D’Amato di Perseveranza di Navigazione e quello della nave Enrico Ievoli della compagnia napoletana Marnavi, presa in ostaggio al largo dell’Oman con a bordo 18 persone, tra cui 6 italiani, liberate dopo 4 mesi solo a seguito del pagamento di un riscatto di 9 milioni di dollari. Negato a livello ufficiale ma confermato da diverse fonti di stampa internazionale.