È la proposta lanciata dai sismologi Emily Brodsky e Thorne Lay, dell’Università della California a Santa Cruz, che riaprono su Science il dibattito sulla possibilità, migliorando anche gli attuali modelli di studio, di riconoscere in anticipo i segnali premonitori, anche se non certi, di violente scosse
Riuscire in futuro a prevedere alcuni grandi terremoti, come quelli del 2011 in Giappone o del 2014 in Cile, potrebbe essere possibile realizzando una rete di sensori sottomarini capaci di mandare i dati in tempo reale. È la proposta lanciata dai sismologi Emily Brodsky e Thorne Lay, dell’Università della California a Santa Cruz, che riaprono su Science il dibattito sulla possibilità, migliorando anche gli attuali modelli di studio, di riconoscere in anticipo i segnali premonitori, anche se non certi, di violente scosse.
Identificare i segnali precursori che possano anticipare un terremoto è una sorta di Sacro Graal della sismologia e nonostante i tanti candidati, come il radon, le emissioni elettromagnetiche o la dinamica degli sciami sismici, si è ancora molto lontani dal trovarli. Analizzando i dati relativi al violento terremoto di magnitudo 9 che colpì il Giappone nel 2011 i ricercatori statunitensi aprono ora una nuova ‘strada’. “Sensori sottomarini – ha spiegato Alessandro Amato, sismologo e dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia (Ingv) – hanno registrato un fenomeno particolare ed è la prima volta che lo si registra. Si tratta di uno ‘spostamento’ lento del terreno nelle settimane che hanno preceduto il violento terremoto sottomarino”.
Partendo da questa ‘novità’ i ricercatori hanno voluto confrontare i dati giapponesi con altri violenti terremoti in qualche modo simili avvenuti in Cile. “In questi terremoti però – ha proseguito Amato – non erano presenti strumenti in mare capaci di registrare movimenti del fondale ma questi sismi hanno avuto comunque la caratteristica comune della ‘migrazione’ degli epicentri delle scosse minori verso la faglia da cui si originò poi l’evento principale. Un fenomeno peraltro abbastanza comune che si registra anche in Italia ma che non è detto che poi sviluppi una scossa più forte”.
La scoperta dello ‘scivolamento’ oceanico è quindi un caso isolato che non trova ad oggi altre conferme ma che secondo i ricercatori dovrebbe essere comunque approfondito. La mancanza dei dati sarebbe infatti dovuta alla mancanza di sensori sottomarini distribuiti in grandi aree e che per risultare utili dovrebbero essere in grado di comunicare in diretta tutti dati, oggi possono passare invece molti mesi prima che i dati vengano raccolti dai pochi ‘registratori’ sottomarini presenti. “Certamente sarebbe importante creare questa rete – ha aggiunto Amato – anche in Italia che in mare non abbiamo praticamente nessun sensore in grado di raccogliere dati”.