Aquest’ora sarà già in viaggio con i suoi dieci chili di zaino. O forse sarà ancora lì fermo, in raccoglimento, sul luogo da cui tutto è partito. Fatto sta che questo sessantenne che conosce il sogno e la malinconia inizia oggi uno dei pellegrinaggi più commoventi di questi tempi sgangherati.
Valerio D’Ippolito è un funzionario in pensione della Croce Rossa, che per vent’anni ha fatto il sindacalista della funzione pubblica e che ha fissato per oggi, domenica 18 maggio, il giorno della partenza a piedi dalla sua terra, la Brianza. Anzi, da un punto preciso della Brianza: San Fruttuoso, vicino Monza.
Il racconto sconvolgente di quel delitto usciva dalla sua bocca in dialetto, nella mia lingua, sì, perché anch’io sono calabrese, sono nato a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza. Allora mi è esploso qualcosa dentro. Che mi si è chiarito qualche mese dopo, il giorno dei funerali. Quando seppi che da Petilia Policastro, dalla terra di Lea, non era venuto nessuno se non il sindaco. Era stato prenotato un pullman, ma era rimasto letteralmente vuoto, lì a Petilia. Vuoto, capisci? Rivedevo mentalmente il film di quella donna disperata che sfidava i clan e la sua stessa storia mentre la Lombardia e la Calabria dormivano e nulla volevano saperne. Trasformata in cenere a qualche chilometro da casa mia a Carate Brianza, negli stessi luoghi del mio impegno in Libera contro la mafia.
Allora ho sentito una rabbia immensa. Perché io sono vissuto in Calabria con i miei fino a ventidue anni: e ricordo un’altra terra. Ne conosco i difetti, la propensione a chiedere favori personali, ma ne conosco anche l’umanità, la generosità. Vuoi saperlo? Io parto perché… (pausa, qui la voce di Valerio si incrina; ndr) non sopporto più di incontrare l’idea di Calabria che c’è in giro per colpa della mafia. In certe circostanze provo vergogna e voglio capire se la provo solo io”.
Un pellegrinaggio silenzioso per denunciare, ma anche un viaggio per riconciliarsi con se stesso. “Ho preparato lo zaino. E’ un giorno che ci lavoro. Non più di dieci chili. Sacco a pelo, materassino, giacca a vento, canottiere, creme per i piedi e contro il sole, sandali speciali. Bisogna essere leggeri ma avere tutto il necessario. Saremo in due. Con me verrà il mio amico Valentino Marchiori, compagno di escursioni in montagna. Quando gliel’ho chiesto non mi ha nemmeno fatto finire di parlare. Vengo anch’io, mi ha detto. Faremo tutta la via Francigena fino a Solopaca. Poi per procedere verso sud ci siamo fatti il nostro itinerario: niente mare, tutto nell’interno, ci faremo un bagno se troveremo un lago. Castrovillari, Lagonegro, Luzzi, Lorica, San Giovanni in Fiore in Sila grande, Petilia Policastro, anzi Pagliarelle, la frazione nella Sila piccola di cui Lea era originaria. Finora abbiamo speso 1500 euro a testa per l’attrezzatura, è tutto materiale tecnico. Certo, se scendendo verso sud potessimo avere qualche ospitalità sarebbe un bell’aiuto. Ci basterebbe niente. Un tavolaccio in una parrocchia o nella sede di un’associazione per metterci sopra il materassino.”
“Quando pensiamo di arrivare? Noi abbiamo calcolato tra il 15 e il 20 luglio. Una volta giunti a Petilia Policastro cercheremo il monumento a Lea Garofalo inaugurato da don Ciotti e lì depositeremo un mazzo di fiori. Dopodiché mi piacerebbe andare a vedere la sua casa natale a Pagliarelle. E lì scattare le foto della gratitudine per metterle su www.youposition.it, su cui cercheremo di tenere pure un diario di bordo”. Ci penso. Dal 18 maggio al 20 luglio, a piedi. Nel frattempo l’Italia terrà il fiato sospeso per i mondiali di calcio e forse anche per i suoi destini politici. Eppure questo pellegrinaggio silenzioso di un calabrese alla ricerca della sua terra, con un mazzo di fiori come epilogo, ha in sé qualcosa di più grande. Ha il profumo della storia.
il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2014