Qualcuno, prima o poi, dovrebbe scrivere un trattato su una equiparazione ragionata tra facebook e la solitudine. Esagero volutamente, ma di fondo tocco un tema rilevante. Svariate riflessioni sono state già prodotte e circolano come articoli sul web, ma provo a fare anche io qualche considerazione.
La solitudine, in breve, è una condizione umana nella quale l’individuo si isola per propria volontà o a causa degli eventi della vita oppure viene ad essere isolato dagli altri. Ne nasce un rapporto privilegiato con se stesso. Sempre in Italia, su una popolazione di circa 61 milioni, all’incira 61 di questi vi sono iscritti e la maggior parte vi hanno avuto e vi hanno accesso, con modalità soggettivamente differenti, nell’arco della loro vita. Obiettivo e risultato: vivere con tutto quel che il vivere comporta.
In sé la solitudine non ha necessariamente un qualcosa di negativo, a fare la differenza sono i modi attraverso i quali ci si arriva e la temporaneità e invasività di questa condizione.
Cosa possono avere in comune quindi facebook e la solitudine?
Sono tra i 26 milioni di utenti facebook e accedo quasi quotidianamente al social network, scrivo informazioni riguardanti la mia vita e ne ricevo riguardanti quella degli altri, alcuni amici, altri conoscenti, altri a malapena so chi siano. Un’amicizia sul social non si nega a nessuno o quasi.
A volte ricevo informazioni, aggiornamenti, notizie che mi interessano, molte altre volte sono cose che mi lasciano indifferente o addirittura mi fanno pensare: “Ma cosa vuoi che mi importi?”. Se giochi, devi stare alle regole del gioco, facebook è quello che è, iscrivendoti ne accetti le modalità e non è escluso tu possa suscitare gli stessi pensieri che gli altri fanno venire a te, anzi è probabile. Volendolo, si possono togliere le persone dalla homepage per non riceverne gli aggiornamenti, ma farsi gli affari degli altri, anche quando poco interessanti, è sempre una tentazione, non fosse altro per puro gossip o per giudicarli e sentirci migliori.
Ma perché condividiamo? Un verbo così intenso e pieno di significato come “condividere”, che richiama l’idea del contatto e della vicinanza in una relazione, ha realmente la stessa valenza su un social network? Perché, ad esempio, se guardo un bel tramonto, invece di stare lì a godermelo, devo farci una foto e postarla,interrompendo la bellezza e forse l’unicità di quel momento? Perché devo aggiornare continuamente gli altri di come sto e cosa faccio? Cosa si cela dietro questo, se non il bisogno di non rimanere soli e la paura che ciò possa succedere?
Shopenhauer diceva: “Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi”. Contattare la solitudine ci porta a contattarci eludendo la superficie, ci fa scendere in profondità, proprio quella che i social network ci negano, ci tolgono il sano senso del pudore, la consapevolezza che certi momenti sono solo nostri e tali dovrebbero rimanere, il fascino del non detto, la possibilità di partecipare attivamente, invece di subire la partecipazione. Se non posto gli altri non mi considerano, si dimenticano di me, non mi fanno sentire importante come vorrei io essere per loro, chiunque essi siano, se non posto sono solo, devo parlare alla mia solitudine e non ci si ricorda più come si fa, non si è più abituati. Sono reali questi timori o sono indotti da una assuefazione di cui non ci si rende davvero conto?
Non sono sicuro che i social network siano solo questo, la possibilità di creare, mantenere e ritrovare persone e relazioni non necessariamente si ferma al virtuale. Un mezzo acquista significato anche grazie all’utilizzo che se ne fa, ma non so se c’è vero equilibrio tra quel che guadagniamo e quel che perdiamo,come ho detto sono solo delle semplici considerazioni, ci vorrebbe un trattato.