Il testo ripercorre l’introduzione filosofica dell’intervento tenuto venerdì 28 marzo a Pomigliano d’Arco, in un evento organizzato dal Movimento Cinque stelle.
Il concetto di Europa è stato da sempre un concetto piuttosto evanescente. Del resto le origini della parola sono mitiche. Europa, figlia del re dei Fenici viene rapita da un toro bianco di grande bellezza e mitezza che la trasporta sino all’isola di Creta, dove assumendo le sembianze di Zeus, genera con lui tre figli. Il mito testimonia una visione armonica tra l’uomo, il divino e l’animale. Il rapimento infatti è consensuale, non c’è violenza, anche se il mito ha delle conseguenze tutt’altro che pacifiche.
Politici come Schuman, Adenauer e De Gasperi nel secondo dopoguerra hanno per altro cercato di alimentare un’altra leggenda, quella che fa risalire storicamente le origini dell’Europa alla nascita del Sacro Romano Impero. Dal loro punta di vista è comprensibile, Carlo Magno era il simbolo della cristianità e tutti e tre erano dei cristiani. Carlo Magno nel IX secolo aveva in mente non l’Europa, bensì l’Impero Romano, come di recente ha mostrato il grande storico francese Jacques Le Goff. L’ideale europeo nasce molto più tardi, probabilmente con Papa Pio II, che nel XV secolo scrive, in latino, il trattato De Europa.
Ma è forse soltanto con l’Illuminismo che l’Europa acquista concretezza e si radica a tal punto che Rousseau arriverà a sostenere (dimenticandosi degli italiani…) che “non esistono più francesi, tedeschi, spagnoli, neanche inglesi; esistono solo europei”. Al tempo stesso però gli europei sono sensibili proprio alle loro differenze. La pluralità viene vista come una ricchezza da conservare, da David Hume che considera la diversità degli Stati che compongono lo spazio europeo un elemento importante che favorisce lo sviluppo culturale, ponendo altresì un limite al potere.
Paradossalmente è proprio l’assenza di una identità politica, di una unità politica dell’Europa a costituire – secondo Hume – un vantaggio.
Grandi Stati esigono poteri forti e lontani dai cittadini, una pluralità di Stati non del tutto estrani gli uni agli altri, creano con la loro pluralità, uno spazio di libertà, così ragionano gli illuministi e persino Kant, che ci ha lasciato un pamphlet indimenticabile, Was ist Aufklärung non ha mai ardito di scrivere un “Was ist Europa”. Certo, è vero che proprio con Kant (penso in particolare a Zum Ewigen Frieden) che nella filosofia politica si afferma l’idea di una comunità internazionale fondata sul diritto e tendente alla pace, di cui l’Europa sarebbe potuto essere l’embrione, ma il ragionamento è cosmopolitico. Anche Mazzini e Proudhon nel secolo seguente parlavano di Europa, ma come Kant intendevano l’umanità intera.
La “Giovine Europa” – scrive Mazzini – “riunisce le associazioni repubblicane tendenti ad un fine identico che abbraccia l’Umanità.” Senza l’Illuminismo, senza lo spirito illuministico, dunque non c’è Europa. Ma indubbiamente anche senza il richiamo alle sue radici cristiane. Novalis, meglio di ogni altro, lo aveva avvertito in un frammento del 1799, Christenheit oder Europa, in cui non c’è solo la nostalgia per i “bei splendidi tempi quelli in cui l’Europa era una terra cristiana, in cui un’unica Cristianità abitava questa parte del mondo umanamente plasmata”. Non possiamo dimenticare le guerre di religione che insanguinarono l’Europa nel Cinquecento e nel Seicento, ma quelle guerre – secondo Novalis – non avrebbero dovuto concludersi con l’affermazione assoluta delle singole potenze statali e la religione avrebbe dovuto continuare a esercitare il suo positivo influsso. “Solo la religione – concludeva Novalis – può ridestare l’Europa, rendere sicuri i popoli e, con nuova magnificenza, reinsediare la Cristianità visibile sulla terra nel suo antico ufficio pacificatore.”
Le cose sono andate diversamente. L’Ottocento è stato il secolo della formazione degli Stati nazionali europei e il patriottismo è diventato la nuova religione civile. Ma il principio della nazionalità, si è trasformato ben presto in nazionalismo ed i risultati li abbiamo visti nella prima metà del Novecento con due guerre mondiali. È nel corso del primo dopoguerra che viene per la prima volta presentata l’idea di un’Europa Unita, nel saggio Paneuropa pubblicato nel 1923 dal conte austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi. Ma è solo durante il secondo dopoguerra che nasce un vero e proprio movimento federalista che ha come obiettivo la creazione degli Stati Uniti d’Europa, e nasce all’interno del dibattito politico e culturale della Resistenza. Nell’estate del 1941 viene redatto tra i confinati antifascisti il documento che fu chiamato Manifesto di Ventotene, firmato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che pochi anni dopo, nel 1944 a Lugano pubblica Gli Stati Uniti d’Europa.
Dopo la fine della guerra la situazione internazionale determinata dalla conferenza di Yalta non permetteva però nessuna politica di unione europea. E il movimento federalista, pur ottenendo riscontri a livello europeo, non ne ebbe mai – per lo meno rilevanti – nell’opinione pubblica italiana. Del resto, il progetto di Spinelli era tutto politico. Non gli interessava tanto l’idea di Europa, come culla della civiltà per le sue radici cristiane e/o illuministiche, ma l’idea politica di Europa. L’obiettivo era di creare uno Stato federale sul modello di quello americano. Il richiamo non era a Mazzini ma ai federalisti americani, anche se Tocqueville aveva messo in guardia, ritenendo difficilmente esportabile quel modello. L’Italia sarebbe dovuta diventare una Repubblica federale all’interno della Repubblica europea.
L’Italia non è mai diventata una Repubblica federale e la Repubblica europea è rimasta uno sogno che si è infranto con il progetto fallito di creare una costituzione europea. Un sogno in cui molti hanno creduto, tanto a destra, quanto (e forse soprattutto) a sinistra. A destra quel progetto era guardato con interesse, sia pure in un rapporto dialettico di alleanza con gli Stati Uniti, in funzione antirussa. A sinistra perché in esso, al contrario, si vedeva l’alternativa politica democratica al neoliberalismo globale dell’Impero americano (Negri, Balibar), l’assenza di una patria che tuttavia resta l’ultima speranza (Cacciari).
Sono gli anni ’90, la seconda metà, in cui ferve la discussione intorno alla Costituzione europea, che vede in Germania aprirsi il dibattito filosofico-giuridico tra Habermas e Grimm. Euroscettici che considerano un danno per la democrazia la trasformazione dell’Unione Europea in una unità politico-costituzionale, poiché la democrazia ha schmittianamente bisogno di omogeneità, di identità, si scontrano con una nuova forma di “patriottismo costituzionale”: quella sostenuta da Habermas con la sua idea della “costellazione postnazionale”. E che ne persino i filosofi, il progetto naufraga miseramente.
La Costituzione, approvata a Roma nel 2004, viene ratificata solo da 18 paesi (tra cui il nostro) su 27. E dove sono previsti referendum popolari l’esito è negativo, così in Francia e in Olanda nel 2005, mentre il Regno Unito decide di sospendere la ratifica a tempo indefinito. Il progetto viene abbandonato, ma solo formalmente, nella sostanza si cerca di far rientrare dalla finestra ciò che i popoli europei avevano fatto uscire dalla porta trasformando la Costituzione in un Trattato, il Trattato di Lisbona entrato effettivamente in vigore nel 2009. Ma è del tutto evidente che si tratta di un Trattato non voluto, bensì imposto ai popoli.
Da allora il tasso di sfiducia nei confronti dell’Europa e di tutte le sue istituzioni non ha fatto che crescere ed oggi, in vista delle prossime elezioni europee, possiamo dire, parafrasando Marx, che uno spettro si aggira per l’Europa ed è lo spettro del populismo, intendendo con questo termine vago tutte quelle forze che, pur di orientamento diverso, sono accomunate dall’euroscetticismo. Come mai? Come mai, si è giunti a tanto? Come mai oggi il tasso di fiducia nei confronti dell’Europa è caduto così in basso? Tanto basso da prefigurare un Parlamento europeo non più, come sinora era stato, bipolare, ma tripolare, e dove il Terzo Polo sarà caratterizzato in senso decisamente euroscettico? Se non si individuano le cause profonde di questo malessere, di questa sfiducia, la regressione dell’integrazione europea non potrà che continuare sino a giungere ad un punto di non ritorno.