Nell’anno del centenario di Gino Bartali che nacque il 18 luglio del 1914 a Ponte a Ema, piccolo borgo alle porte di Firenze, il Giro d’Italia lo ricorda assai distrattamente, ed è scandaloso: lo fa in una tappa anonima come quella che parte da Modena e arriva a Salsomaggiore Terme, con l’alibi che qui Ginettaccio vinse il 6 giugno del 1936. Era la penultima frazione di un Giro autarchico, senza stranieri in corsa, attraverso un’Italia messa al bando dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia. Lo sport era essenziale nella propaganda fascista, gli italiani erano incoraggiati a trascorrere il loro tempo libero nei circoli sportivi e in quelli “ricreativi”, generosamente sostenuti dal regime.

Eloquente il titolo cubitale sulla prima pagina della Gazzetta della Rosa, lunedì 8 giugno del 1936: “Bartali ha trionfato nel XXIV Giro d’Italia aggiudicandosi il 1° premio del Duce”. Il prolisso e retorico editoriale insiste fin dalle prime righe sulla “buona causa dello sport”: “Quasi tutti i concorrenti hanno lottato con bravura, con lealtà, con fierezza fasciste. La causa dello sport, che il Capo ha voluto e vuole forte e primo nel mondo, ha vinto una nuova significativa, importante battaglia”. Bartali fu grandissimo ciclista negli anni del fascismo ma non fu fascista. Anzi, evitò accuratamente di lasciarsi coinvolgere nelle manifestazioni politiche. Era un militante di Azione Cattolica. Dopo il Giro del 1936 fece suo quello successivo. Nel 1938 dominò il Tour de France. L’ineffabile Gazzetta scrisse che le ovazioni dei francesi per l’esaltante prova dell’italiano “avevano una risonanza più forte e più significativa. Esaltavano la virtù atletica e morale di un esemplare della nostra razza. La vittoria di Gino Bartali supera il limite dell’evento sportivo, per clamoroso che questo sia”.

Tradizione era che al vincitore del Tour spettasse il compito di parlare ai tifosi che gremivano gli spalti del Parco dei Principi. Il discorso del vincitore avrebbe dovuto essere un panegirico dell’Italia fascista e soprattutto del Duce, il “primo sportivo d’Italia”. I gerarchi si aspettavano elogi e ringraziamenti, nelle parole di Bartali, l’occasione formidabile di trasformare l’evento sportivo in un evento politico, e proprio in quella Francia socialista che accoglieva gli antifascisti esuli. Bartali non ringraziò il Duce. Ringraziò i tifosi italiani e francesi. Quando torna a Firenze, alla stazione non c’è un cane. Nessun comitato d’accoglienza. Le autorità lo ignorano. Nei mesi successivi i giornali italiani ricevettero precise istruzioni – le famigerate “veline” mussoliniane – su come trattare le prestazioni di Bartali: scrivete solo di sport, ignoratelo per il resto, “senza considerazioni inutili sulla sua vita privata”. E senza note di colore.

La guerra travolse il fascismo e distrusse mezzo Paese. Gino, incurante del pericolo, sfidò repubblichini e nazisti, percorse centinaia di chilometri tra Firenze ed Assisi in sella ad una bici nel cui telaio, e persino sotto il sellino, infilava fotografie e documenti di identità contraffatti. Salvò così almeno ottocento persone, molte delle quali di origine e religione ebraica. Leggetevi il libro di Aili e Andres McConnon (edizioni 66ThA2ND di Roma, 2013), intitolato a non a caso “Le strade del coraggio”, “Gino Bartali eroe silenzioso”. Già, perché lui non ne parlò mai: “Certe cose si fanno, non si dicono”, disse a suo figlio Andrea che gli chiese per quale motivo non avesse mai raccontato pubblicamente quei mesi terribili. Lo stesso Andrea lo ha ricordato poche sere fa, durante una cena organizzata a Foligno, presso la bella libreria Carnevali (ricavata nell’ex cinema Astra) dall’associazione “Sovversioni non sospette”.

Al ciclismo dell’immediato dopoguerra fu lasciato un compito tanto importante quanto delicato, ma straordinario: correre il Giro tra le macerie, le rovine delle città e quelle psicologiche di un popolo sconfitto e umiliato che però doveva trovare forza ed energia spirituale per ricominciare, per rimettere in piedi un Paese devastato economicamente e moralmente, diviso profondamente da un nuovo, inevitabile conflitto, quello politico. Il Giro della Ricostruzione riuscì a diffondere un grande e accorato messaggio, quello dell’unità sia pure nelle diversità. L’unità rappresentata simbolicamente dal ciclismo, sport di fatica e di grandi rivalità, di entusiasmi popolari e di tenacia. Vinse forse il personaggio più rappresentativo delle due ruote, colui che ricuciva idealmente il ciclismo d’anteguerra e il ciclismo di un presente da riconquistare. I valori stoici di un Bartali non più giovane lo fanno tornare sul gradino più alto del podio, dieci anni dopo il Giro del ’36, davanti ad un redidivo Fausto Coppi di cinque anni più giovane, il quale tagliò tre volte il traguardo per primo.

Ed è ancora Bartali che nel 1948 trionfa al Tour de France, dieci anni dopo la prima volta. Una vittoria storica, perché calmò un’Italia sul bilico della guerra civile. Avevano sparato a Palmiro Togliatti, il capo dei comunisti. L’Italia “rossa” voleva rovesciare il governo. Alcide De Gasperi, il premier, telefonò la sera del 14 luglio a Bartali, alla vigilia della Cannes-Brainçon, 274 chilometri alla morte con il Col d’il Col de Vars (2108) e l’Izoard (2361 metri). Gino sbaragliò gli avversari, in un clima di tregenda che diventerà leggenda. Mi indigno perché dinanzi a tanta memoria di sport e di storia, il Giro del 2014 non sia passato a Ponte a Ema, davanti alla casa di Gino e al museo che le sta di fronte. Bartali è la storia del Giro. Ma il Giro se l’è scordato. Non è nemmeno passato a Firenze. E neanche in Toscana. Micragnosità delle amministrazioni pubbliche? Degli sponsor? Dell’organizzazione rosa?

Per la cronaca, la decima tappa si è conclusa come da copione per tappe piatte piatte. Volata convulsa a Salsomaggiore, rovinata da una drammatica caduta che ha coinvolto una dozzina di velocisti a seicento metri dal traguardo. Mezz’ora prima era toccato al belga Jannick Ejissen, fido gregario della maglia rosa Cadel Evans, ruzzolare e farsi male: l’hanno portato via in ambulanza. Ha vinto il più forte sprinter di questo Giro: il franco algerino Nacer Bouhanni per la terza volta ha infilzato impietosamente gli avversari. Le ha buscate solo dallo stupefacente tedescone Marcel Kittel, il quale, dopo aver strabiliato in terra d’Irlanda, ha mollato il Giro per colpa della febbre, prima di arrivare nel Belpaese. Elia Viviani, buon talento delle volate, non solo è rimasto coinvolto in due cadute – la seconda ieri – ma ha avuto pure lui la febbre. Non si è arreso. Quanto a tener duro, che dire di due uomini sempre in fuga come Andrea Fedi della Neri Sottoli e Marco Bandiera dell’Androni Giocattoli? Ci stanno provando quasi ogni tappa. Fedi ha accumulato 608 chilometri all’attacco, il rivale Bandiera quasi 500. Sinora sono stati percorsi 1734,7 chilometri. Più di un terzo Fedi li ha condotti in testa. Il primo dei fuggitivi di giornata guadagna 250 Euro. Al al vincitore della classifica generale di questo premio “Fuga Pinarello” andranno 5mila Euro. Oggi come oggi, ogni chilometro in fuga di Fedi vale 8 Euro e 22 centesimi.

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