Prodi ci avvisa, in sostanza, di due cose: se decidessimo di trivellare i fondali dell’Adriatico potremmo estrarre, entro il 2020, 22 milioni di tonnellate di idrocarburi; se non lo facciamo noi (per ragioni ambientali, burocratiche, per mancanza d’iniziativa imprenditoriale) lo farà comunque la Croazia.
Non scherziamo. Siamo al cospetto di due falsi argomenti.
Partiamo dal primo. 22 milioni di tonnellate sembra un “mare” di petrolio, ma non lo è. Nel 2012 un’Italia sempre meno assetata di barili di greggio ha consumato 63 milioni di tonnellate di petrolio. Ovvero: l’11,4 per cento in meno rispetto all’anno precedente, circa il 30 per cento in meno rispetto al 2000. Nel biennio 2010-2012 si è registrata una flessione pari a circa la metà di quella registrata nel decennio precedente. Tutta colpa della crisi? Solo in parte. C’è un progressivo cambiamento nel sistema energetico – innescato dall’elettrificazione dei consumi e dall’efficienza, ma che dovrà estendersi anche a una rivoluzione nella mobilità di persone e merci – che sarebbe sciocco non vedere. Fatto sta che il “mare di petrolio” di cui parla Prodi (da estrarsi, lo ricordiamo, in 6 anni) equivale nella migliore delle ipotesi a 4 mesi di consumi del “sistema Paese”. Più che un mare uno stagno.
Veniamo al secondo argomento: se non trivelliamo in Adriatico lo farà la Croazia al posto nostro. Sembra di riascoltare il vecchio adagio con il quale si sosteneva anni addietro il nucleare, poi sonoramente bocciato dagli italiani: che senso ha non investire sull’atomo quando lo fa la Francia alle porte di casa nostra? Che senso ha non optare per una scelta, anche se sbagliata, quando quella stessa scelta sono pronti a compierla i nostri dirimpettai? Domande ai limiti del nonsense.
Il ragionamento di Prodi poggia su un non detto, poi, che è anche un grande equivoco. Il petrolio che giace sotto i fondali dei nostri mari – spesso di pessima qualità – non è “nostro”, o lo è semmai solo virtualmente. Quel petrolio, in uno sciagurato domani in cui fosse estratto, sarebbe delle compagnie. Parliamo dei soliti colossi dell’energia, parliamo di profitto privato. Di quel profitto la collettività godrebbe ben poco. Le royalties per l’estrazione onshore in Basilicata oggi sono del 7 per cento (più un’accisa ulteriore del 3 per cento ); in Sicilia erano al 10 per cento, tra le più basse al mondo. Sono state innalzate al 23 per cento, ma è durata un anno; subito ribassate al 13 dal governo Crocetta per “non far scappare gli investitori”. Quelle per le estrazioni offshore valgono il 7 per cento (le più basse al mondo), con una serie di codici e codicilli che rendono di fatto immaginifica persino questa modesta percentuale. Insomma, il flusso di denaro per le comunità interessate dalle estrazioni e per la fiscalità generale non copre neppure le esternalità della produzione. In più, per l’offshore è previsto anche un segmento “tax free”, ovvero l’esenzione da qualsiasi imposta fino a una soglia minima di produzione. È un fatto che vecchie piattaforme, che sarebbero da smantellare, da anni producono al di sotto di tale minimo. Viene inoltre da chiedersi se sia già disponibile un calcolo, ancorché sommario, del trade-off tra queste attività di sfruttamento dei bacini di idrocarburi e i danni che ne verrebbero alla pesca e al turismo.
Dice Prodi che potremmo attrarre 15 miliardi di investimenti e creare numerosi posti di lavoro. Ma è quello il settore su cui conviene puntare? Le attività di estrazione di idrocarburi, a parità di investimenti, generano molta meno occupazione delle fonti rinnovabili. Mentre queste ultime contribuiscono sempre più utilmente a ridurre l’import di fossili (nessuno dice mai che le energie pulite ci fanno risparmiare, già oggi, circa 10 miliardi l’anno di mancato import energetico), il petrolio è in netta crisi di consumi e lo sarà sempre più. Che le rinnovabili siano le fonti del futuro se ne sono accorti tutti, i mercati internazionali e le grandi potenze economiche come la Germania e la Cina, che entro il 2017 triplicherà il suo solare. Anche noi possiamo guardare al futuro, difendere la bellezza e la sostenibilità del nostri mari e pensare a un ‘green deal’ per uscire dalla crisi; o, più ciecamente, possiamo guardare alla distesa dell’Adriatico come a un nuovo Texas italiota e svenderne i fondali per pochi danari. Un altro modo per portare a compimento la distruzione del clima, oltre che del nostro patrimonio naturale.
di Andrea Boraschi – responsabile campagna Energia e Clima, Greenpeace Italia