Neppure percepiti come eccezioni o anomalie nei paesaggi contemporanei, disabitati, vecchi -a volte neppure tanto vecchi- manufatti residenziali, industriali, agricoli, infrastrutturali case coloniche, tracciati ferroviari, in rovina, terreni desolati, ruderi dall’irriconoscibile uso originario, scheletri di case o di capannoni mai completati, punteggiano sempre più le aree urbane, suburbane e rurali.

Del resto l’abbandono di edifici e spazi aperti è un fenomeno che è sempre esistito. Se nella storia, uomini e donne hanno abbandonato case, castelli, campi, fabbriche, intere città… perché farci caso? 

E pure, accorgersi oggi della loro presenza, “vederli” può arricchire la quotidianità dell’abitare. Dopo che lo sguardo, allontanatosi dalle abitudini visuali che letteralmente “non fanno vedere” tratti anche rilevanti delle aree che attraversiamo, scoprire gli spazi abbandonati vuol dire provare ad assegnare un senso a quelle rovine.

E assegnargli un senso è già una prima asserzione sull’abitare; è già parola critica detta. È aggiungere qualcosa all’idea di un futuro da immaginare. Portare intenzionalmente l’attenzione su determinati oggetti: vedere è un atto della volontà. “Vedere” la presenza dell’abbandono è scoprire potenzialità.

Nel territorio postindustriale l’abbandono, e la conseguente riduzione a rovina, di tante aree e manufatti è dovuto alla decadenza del loro valore commerciale e al mancato rientro nel mercato. Lo spazio abbandonato è quasi sempre residuo, a volte conseguenza di spreco. Gli spazi abbandonati dovrebbero, in primo luogo, apparire utili a chi non ha abbastanza spazio per soddisfare le esigenze della propria vita. Per esempio a chi non ha una casa.

Oltre che eventualmente offrire spazio alla soluzione di esigenze primarie, che cosa possono dare all’abitare futuro? Quei relitti interrogano.

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