Tanto rumore per poco. Il mini rally dei tassi di interesse pagati dai Buoni poliennali del tesoro a 10 anni (Btp) non avrà effetti molto rilevanti sull’esborso totale che lo Stato italiano dovrà sostenere nel corso di quest’anno per finanziare il debito. E’ vero, infatti, che il timore per l’esito delle elezioni europee e il dato deludente sull’andamento del Pil nel primo trimestre (-0,1%) hanno fatto risalire il rendimento oltre il 3,2%, lontano dai minimi storici (2,9%) toccati durante la prima metà di maggio. E’ vero che il differenziale rispetto ai Bund tedeschi è aumentato di conseguenza fino a oltre la soglia psicologica di 200 punti base (pur ripiegando poi a 183) e che il rialzo potrebbe continuare per almeno qualche settimana dopo il voto se i partiti euroscettici – come è probabile – otterranno un’affermazione importante. Ma, spiegano gli analisti, l’impatto negativo sulla spesa per interessi sarà contenuto. Basterà qualche accortezza nel decidere le prossime emissioni di titoli, privilegiando i Bot (che ormai pagano intorno allo 0,6%) rispetto ai più “costosi” – per le casse pubbliche – Btp. D’altronde il Tesoro, grazie agli oltre 20 miliardi raccolti in aprile con il Btp Italia – che ha portato il totale dei collocamenti del 2014 a poco meno di 200 miliardi – non è pressato da urgenze di finanziamento. Il governo Renzi, però, vede sfumare un’altra speranza: quella – messa nero su bianco nel Documento di economia e finanza (Def) – di veder scendere già da quest’anno quella voce di spesa. Che nel Def è data in calo al 5,2% del Pil, pari a circa 78 miliardi di euro. Mentre con tutta probabilità si attesterà anche nel 2014 intorno agli 80 miliardi, nella media degli ultimi anni.
Infatti l’assunto di base di Renzi e del ministro Pier Carlo Padoan, dichiarato nel testo del Def, è che il differenziale con i tassi di interesse rimanga “in linea con quello corrente”, cioè “su valori inferiori ai 170 punti base”. Peccato che, come si è visto in questi giorni, lo spread sia tutt’altro che in discesa verticale e resti molto soggetto agli umori e alle preoccupazioni dei mercati. “Quindi rispettare quelle previsioni non sarà facile”, è la valutazione di Angelo Drusiani di Banca Albertini Syz. “Detto questo, va ricordato che il costo medio del debito nel 2013 ha toccato il minimo storico, poco sopra il 2%. E, anche tenendo conto delle tensioni di questi giorni, l’eventuale scostamento sarà minimo”. Tradotto: l’esborso per interessi potrebbe, invece di scendere, mantenersi sul livello dell’anno scorso, 82 miliardi. “Sulla raccolta, però, non vedo problemi: i titoli sovrani dei Paesi “periferici” dell’area euro continuano ad essere apprezzati dagli investitori in cerca di buone remunerazioni. Lo dimostra, a contrario, il fatto che invece l’asta dei Bund tedeschi di mercoledì sia andata male: la domanda è stata di soli 3,7 miliardi contro un’offerta di titoli per 5″. Una preoccupazione, sullo sfondo, rimane: “A fine anno i rendimenti potrebbero aumentare di nuovo in seguito alle decisioni della Bce attese per giugno (Francoforte potrebbe decidere di immettere liquidità nell’economia acquistando titoli, ndr) e all’attesa per il rialzo dei tassi da parte della Fed”.
E’ invece più preoccupato dall’andamento del rapporto debito/pil che dal fardello degli interessi Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma: “Il vero problema, in questa fase, è il “vuoto d’aria” nella crescita registrato nel primo trimestre: quel -0,1% condizionerà l’andamento dell’intero anno”. Veramente il ministro Padoan continua a ripetere che ci saranno “sorprese positive” nei prossimi mesi. “Io ho fatto un po’ di conti: per arrivare al +0,8% previsto nel Def servirebbe un rimbalzo molto consistente nel secondo trimestre – più o meno dovremmo crescere come la Germania – e poi dovremmo restare su quei livelli fino a dicembre. Me lo auguro, ma mi pare improbabile. In più c’è la trappola dell’inflazione bassa (attualmente allo 0,6%, ndr)”. Che, come abbiamo imparato negli ultimi mesi, deprime ulteriormente la crescita innescando un circolo vizioso. E, a livello contabile, fa sì che il già misero tasso di crescita del Pil nominale – cioè espresso in moneta corrente – non possa contare nemmeno sul “doping” dell’aumento dei prezzi: così anche il Pil reale (che si calcola sommando a quello nominale l’inflazione) resta basso. Risultato: il peso del debito sul prodotto aumenta. Tanto più ora che il debito, complice il pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione, continua a inanellare un record dopo l’altro: a marzo si è attestato a quota 2.120 miliardi, il 136% del Pil. “E’ quello che si definisce “effetto valanga”: il debito cresce, il Pil scende e il rapporto si impenna”. Prendendo una direzione ben diversa rispetto a quella prevista dall’esecutivo, che nel Def parla di “sensibile rallentamento della crescita del rapporto debito/Pil nel 2014”, prevedendolo al 134,9% quest’anno e in discesa a partire dal prossimo fino al 120,5% del 2018.
A Matteo Renzi resta pur sempre l’asso nella manica di Esa 2010, il nuovo sistema di contabilità pubblica che entrerà in vigore in tutta Europa a ottobre e per l’Italia comporterà – senza che in concreto cambi nulla – un aumento del Pil di almeno un punto percentuale. “Un effetto puramente statistico che però inciderà in modo sostanziale sul rapporto debito/Pil: potrebbe farlo scendere fino al 132%“. Dopo tante “brutte sorprese”, ci voleva.