Ogni epoca ha i suoi crociati. A noi son toccati i “federalisti europei”. Sono quelli che son convinti che “Europa lo vuole”, e che qualsiasi mezzo sia lecito, anche l’uso della violenza, per guidare il gregge europeo verso la Gerusalemme Celeste degli Stati Uniti d’Europa.
Un approccio che ho descritto nel post precedente, e la cui logica ci è stata documentata autorevolmente dal dott. Castaldi, nel cui saggio rinveniamo appunto che: “l’unione monetaria è stata pensata anche come strumento per arrivare all’unione politica” (p. 2). L’inversione fra mezzi e fini è del tutto evidente: la moneta, come segno e strumento di esercizio della sovranità, richiede, appunto, un sovrano. Creare la moneta per creare lo Stato è come tornire uno scettro per instaurare una monarchia. Gli Stati Uniti d’Europa sono un progetto antistorico, il loro fallimento è sotto i nostri occhi, ed è inutile tornarci sopra dopo le parole definitive per autorevolezza e ironia con le quali Aldo Giannuli ha inchiodato il coperchio della loro bara. Vale però la pena di rileggerle, queste parole, per capire quanta sbalorditiva superficialità si celi dietro queste due parolette: “più Europa”.
Intendiamoci: così come ogni epoca ha i suoi crociati, ogni epoca ha le sue armi. I crociati d’antan si servivano di scomodi spadoni a due mani. Quelli odierni esercitano la violenza in un modo più confortevole, asettico, indiretto: provocando in modo deliberato crisi economiche che costringano il gregge ad andare dove pastore vuole. Funziona ugualmente, e non ti vengono i calli.
Siccome voglio molto bene ai miei affezionatissimi troll, che sono per me fonte di inesauribile ilarità, mi affretto a sconsigliarli dall’avviarsi sulla strada del “Bagnai complottista!”. Il pregevole studio del dott. Castaldi, sopra citato, ci ricorda infatti che i federalisti erano veramente convinti, e tuttora lo sono, che una mobilitazione dei cittadini europei a favore del progetto federale richiedesse “l’emergere di crisi specifiche dei poteri nazionali, ovvero di problemi percepiti socialmente che non potevano trovare soluzione nel quadro nazionale. L’emergere di tali crisi costituiva la finestra di opportunità per l’avanzamento del processo di unificazione, e ne determinava la possibile direzione: una crisi economica poteva permettere avanzamenti sul terreno dell’integrazione economica…” (p. 4). Aggiungo, laddove ci fossero dubbi, che il prof. Zingales ha parlato a questo proposito di progetto criminale, basato sull’uso di crisi premeditate.
Parole molto forti, e anche, occorre dirlo, pronunciate col senno di poi, in un senso molto specifico che mi affretto a precisare. Certo, noi ora possiamo vedere quanta morte e quanta esclusione sociale abbia provocato la crisi. Va anche detto però che essa viene al termine di un periodo di trent’anni in cui, per vari motivi e in vari modi (anche attraverso l’integrazione monetaria), la posizione delle classi subalterne si è indebolita (lo testimonia il crollo della quota salari). Nell’ottica degli anni ’60, quella nella quale si ponevano gli Spinelli e gli Albertini, con economie in vigorosa crescita, con uno stato sociale in fase di costruzione e non di smantellamento, la leggerezza con la quale i “padri nobili” parlavano di “contraddizioni” è del tutto veniale: sicuramente loro non potevano immaginare che stessero parlando del suicidio di tanti loro simili, della distruzione del futuro di intere generazioni. Sono anche scusabili quelli che oggi si pronunciano in merito non avendo esperienze di ricerca documentate in ambito economico, che consentano loro di pronunciarsi in modo credibile e autorevole sui legami fra moneta unica, crisi e politiche deflazionistiche.
Questo legame però ai “padri nobili” era chiaro, e quindi molto probabilmente un giurista parlerebbe, a loro proposito, di dolo eventuale. Io preferisco parlare di paternalismo (una élite si è presa il compito di definire gli obiettivi della collettività senza lasciare che quest’ultima si esprimesse nell’ambito di un formale processo democratico) e di autoritarismo (per raggiungere l’obiettivo non si è esitato a ricorrere alla violenza, se pure di tipo economico e non fisico). Il vero nodo della costruzione europea attuale è questo, ed è un nodo gordiano: la spada l’avete voi, e potete decidere di usarla alle prossime elezioni. La scelta è molto semplice: da una parte l’Europa, e dall’altra l’euro. Il nodo non è (solo) economico, è (soprattutto) politico. La palese inversione fra mezzi e fini fa sì che in questo momento rivendichi per sé la patente di “europeista” proprio chi difende acriticamente il progetto eurista, cioè quanto sta distruggendo l’Europa. La Storia è qualche volta ironica, ma ha un caratteraccio, e non perdona. Ricordiamocene.
Naturalmente una crociata presuppone una fede, che fatalmente si identifica con l’assenza di spirito critico, di apertura ad alternative. Non puoi servire Dio e Mammona. Non puoi servire Bruxelles e Roma. Il fideismo europeista è qualcosa di spettacolare: quando si passa dal biascicare “più Europa” ad articolare argomenti, si vede subito cosa c’è che non va, il che però non scoraggia i crociati, perché, come è ben noto, credo quia absurdum. Rimane il fatto che qualsiasi proposta di “più Europa” comporta, sul piano tecnico, una volontà politica solidale che in Europa è sempre mancata e che le tensioni causate dalla crisi hanno amplificato in modo ormai irreversibile. Le tre strade comunemente indicate: (1) una “Bce simile alla Fed”; (2) gli eurobond di qualsiasi tipo; (3) politiche espansive del Nord; urtano tutte contro un limite che agli occhi dell’economista risulta ovvio. Tutte e tre comportano il trasferimento di risorse dal Nord al Sud, esattamente come comporterebbe trasferimenti simili l’esistenza di uno Stato federale europeo (che alla fine sarebbe politicamente insostenibile, esattamente come abbiamo visto da noi dopo svariate decine di anni di vano “più Italia” basato sui trasferimenti dal Nord e l’emigrazione dal Sud).
Una Bce più inflazionistica trasferirebbe risorse dai creditori ai debitori (sapete bene che l’inflazione svantaggia il creditore, che presta moneta “pesante” e viene rimborsato in moneta “leggera”, cioè dotata di minor potere d’acquisto); qualsiasi forma di mutualizzazione del debito comporterebbe uguali trasferimenti di risorse o garanzie da parte dei paesi del Nord; lo stesso vale, implicitamente, per qualsiasi politica espansiva del Nord. Il vantaggio competitivo della Germania deriva, come ammettono gli stessi economisti tedeschi, dalla precarizzazione del lavoro e dalla compressione dei salari. Compressione dei salari significa espansione dei profitti. Ci andate voi dai capitalisti tedeschi a dirgli che devono ridurre i propri profitti e pagare di più i propri lavoratori per fare un piacere a noi? Buona fortuna. Non bisogna mai dimenticare che qui la partita non è solo Italia-Germania (4 a 3), ma anche capitale-lavoro (1 a 0, perché l’arbitro, lo Stato, in questo momento gioca da una parte ben precisa).
Quindi la fede federalista, la granitica certezza che il “più Europa” ci salverà, l’assoluta, incrollabile convinzione che anche se la strada è lunga, la meta del “più Europa” sia così santa da giustificare qualche lieve danno collaterale (che tanto riguarda gli altri), si sbriciola come un wafer contro il granito della logica economica e politica: non si son mai visti dei vinti minacciare credibilmente i vincitori, dopo essersi legati le mani dietro la schiena col cambio fisso. Occorre sostituire a questo mondo di certezze astratte una riflessione più critica e articolata sui tanti ruoli che il tasso di cambio svolge, non solo nel riequilibrare i conti esteri, ma anche nel segnalare squilibri finanziari, favorendo una corretta allocazione delle risorse, e nell’assicurare il rispetto degli accordi internazionali, compensando le politiche di dumping salariale dei partner. Un primo contributo in questo senso, se interessa, è qui. Ai liberisti per i quali i problemi strutturali si risolvono impedendo al mercato dei cambi di funzionare mandiamo una cartolina affettuosa dalla frontiera della ricerca (un posto un po’ inospitale, ma che merita una visita).
Va anche detto che dietro a ogni crociata non c’è solo la fede, ma, spesso e volentieri, anche il soldo. Quando nel 1204 i veneziani entrarono con la nota buona grazia a Costantinopoli lo fecero, certo, per combattere la corruzione dei bizantini (come vedete, l’argomento è tutt’altro che originale), ma anche per portarsi qualche souvenir a casa. Poverini, avevano fatto tanta strada, mossi dal loro intento moralizzatore! Ci sarebbe allora da riflettere, ogni tanto, su quale credito dare a studi e istituzioni di ricerca che dalla greppia europea ricevono abbondante foraggio. Quello che vale per il famoso studio One market, one money, finanziato da Bruxelles, e che già all’epoca venne confutato da studiosi indipendenti, continua a valere per tutte le valutazioni emesse da studiosi e think tank in palese, quanto inconfessato, conflitto di interessi. In questo l’economia deve fare ancora progressi. Nelle riviste mediche chi scrive deve chiarire se è stato pagato da una casa farmaceutica. In quelle economiche non sei sempre costretto a dire chi ti paga.
Il che spiega molte cose, delle quali, magari, parliamo un’altra volta.
Riceviamo e pubblichiamo la seguente replica di Roberto Castaldi
Il prof. Bagnai deforma il pensiero mio e di chi non concorda con lui, premi Nobel inclusi. Stiglitz e Sen dichiarano: «Siamo molto turbati nel constatare l’abuso … che viene fatto delle nostre analisi sul funzionamento dell’euro. Siamo fortemente a favore di un’Europa più unita, che sfoci nell’integrazione politica».
Lei ha sostenuto che per me “i suicidi provocati dalla crisi sono ‘l’emersione di una contraddizione tale da aprire la strada a un progetto costituente europeo‘”. E poi che “i “federalisti europei”… son convinti che… qualsiasi mezzo sia lecito, anche l’uso della violenza, per guidare il gregge europeo verso la Gerusalemme Celeste degli Stati Uniti d’Europa. Un approccio la cui logica ci è stata documentata autorevolmente dal dott. Castaldi”. Quanta fantasia!
1. La prima accusa è grottesca: è la contraddizione tra un mercato unico, una moneta unica e l’assenza di un governo europeo dell’economia ad “aprire la strada a un progetto costituente europeo”. I suicidi e le sofferenze della crisi sono il frutto di tale contraddizione, e del fallimento dei governi nazionali.
2. La seconda ridicola: i federalisti sono pacifisti e la prima proposta di legge per l’obiezione di coscienza in Italia fu un’iniziativa del Movimento Federalista Europeo.
3. Accostare Spinelli e Albertini a progetti neo-liberali, deflazionistici, ecc. mostra ignoranza o malafede, perché contro tutta la loro documentata storia: Il Mulino ha pubblicato tutti gli scritti di Albertini e molti di Spinelli.
4. Che i federalisti provochino le crisi per far avanzare l’integrazione è assurdo. Noi siamo contro la moneta senza lo Stato! I governi nazionali – in cui lei ripone fiducia – hanno fatto tale scelta, che noi abbiamo contestato fin dal Trattato di Maastricht del 1992, denunciando che la contraddizione di cui sopra andava superata o avrebbe provocato disastri, come sta avvenendo. Ecco perché Sen, Stiglitz e i federalisti chiedono l’Unione politica. Gli scritti di Ciampi, Iozzo, Majocchi, Masini, Montani, Padoa Schioppa, ed altri forniscono ampia prova di ciò.
5. Lei sostiene che la solidarietà europea sia impossibile: è vittima del “nazionalismo metodologico” (Beck). Ma sindacati europei, organizzazioni europeiste, grandi ONG come Libera, ARCI e molte altre, e personalità della cultura chiedono poteri fiscali per l’UE, titoli di Stato europei e un piano straordinario di investimenti europei per rilanciare l’economia e l’occupazione (www.newdeal4europe.eu). La parte viva della società europea è opposta alla sua.
Roberto Castaldi
Amministratore e Direttore della ricerca del Centro Studi, formazione, comunicazione e progettazione sull’Unione Europea e la Global Governance (www.cesue.eu)
Professore Associato di Filosofia politica presso l’Università Ecampus
Vice-Editor Perspectives on Federalism (www.on-federalism.eu)
Affiliato Istituto DIRPOLIS Scuola Sant’Anna di Pisa
Controreplica
Mi spiace che il prof. Castaldi faccia un caso personale della mia citazione di un suo lavoro. Ribadisco di avere utilizzato la frase del prof. Castaldi nello stesso modo e con le stesse finalità con le quali lui la utilizza nel suo studio, cioè per riassumere l’atteggiamento di personaggi come il presidente Prodi e il presidente Monti, i quali entrambi, con diverse sfumature, hanno ammesso di essere consapevoli che le modalità prescelte per l’integrazione europea avrebbero provocato crisi, nelle quali essi ravvisavano comunque un elemento positivo ai fini della costruzione europea. Metodo politico dal quale mi sento di dissentire e che resta il vero nodo della questione europea in termini di politica economica (intesa sia come political economy che come economic policy). Mi scuserete quindi se me ne occupo.
Viceversa, mi lascia del tutto indifferente che il prof. Castaldi mi accusi di distorcere l’altrui pensiero.
Per quanto riguarda lui, vorrei sapere se è vero o non è vero che nel suo saggio è scritto che per i teorici del federalismo “le crisi costituivano opportunità per lo sviluppo di una ‘iniziativa’ federalista”. Voglio ricordare che nel 1971 Nicholas Kaldor scriveva: “Un giorno le nazioni europee potrebbero essere pronte a fondere le proprie identità nazionali per creare una nuova Unione Europe, gli Stati Uniti d’Europa. Se e quando lo faranno, un Governo Europeo assumerà tutte le funzioni che il Governo Federale attualmente esercita negli Stati Uniti, in Canada o in Australia. Ciò comporterà la creazione di una “unione economica e monetaria compiuta”. Ma è un errore pericoloso credere che l’unione monetaria ed economica possa precedere l’unione politica o che possa agire (secondo le parole del rapporto Werner) “come un lievito per lo sviluppo di una unione politica della quale in ogni caso nel lungo periodo sarebbe impossibile fare a meno”. Perché se la creazione di una unione monetaria e il controllo comunitario sopra i bilanci pubblici nazionali genereranno pressioni tali da portare al crollo dell’intero sistema essa avrà impedito lo sviluppo di un’unione politica, anziché promuoverlo”. Negli anni ’70, quando i “federalisti” ragionavano come Castaldi ci racconta, Kaldor obiettava nel modo che vi ho appena ricordato. Sta succedendo quello che diceva Kaldor. Punto.
Per quanto riguarda Stiglitz, è ovvio che anche questi, come me, nel mio piccolo, sia infastidito dall’essere associato da una certa stampa dozzinale a movimenti “populisti”. Ricordo che sono decenni, a partire da Sachs e Sala-i-Martin (1991), che gli economisti americani in qualche modo “auspicano” un modello federale per l’Europa, cioè dicono: “O fate come noi, o finisce male”! La differenza fra un economista e un filosofo però è netta. L’economista, grossolanamente, ritiene che il mondo esterno esista, che esistano i fatti, e che ad essi si sia prima o poi costretti a conformarsi. Nell’auspicare l’integrazione fiscale, Sachs e Sala-i-Martin riconoscevano che l’Europa aveva “a long way to go”, ma 23 anni dopo l’Europa non ha mosso nemmeno un passo in quella direzione per l’opposizione dei paesi del Nord, sulla quale Castaldi glissa. Sono contento di sapere da lui che l’Arci auspica gli Stati Uniti d’Europa. Bene! Purtroppissimo la Merkel no. Che facciamo? Mandiamo il presidente dell’Arci a governare la Germania? Stiglitz ritiene che ciò non sia possibile e ha indicato fin dal 2010 qual è secondo lui una prospettiva realistica per risolvere la situazione: quella ripresa dal Manifesto di Solidarietà Europea, ovvero uno smantellamento concordato dell’Eurozona, a partire dai paesi più competitivi. Questa posizione non è stata smentita nel suo ultimo intervento alla LUISS, che ha di fatto ribadito le aporie del “più Europa”.
(Alberto Bagnai – Professore associato di Politica Economica, Dipartimento di Economia, Università Gabriele D’Annunzio, Pescara (Italia) / Visiting Fellow, Centre for Globalisation Research, Queen Mary University of London (GB) / Chercheur associé, Centre de Recherche en Economie Appliquée à la Mondialisation, Université de Rouen (Francia) /Membro del direttivo dell’International Network for Economic Research, Bonn (Germania))