No, quel libro, lui, non lo vuol rileggere. E se proprio dovesse, per forza di cose, esser costretto a farlo, senza dubbio alcuno ‘caería desmayado’, cadrebbe in deliquio (non è chiaro se per noia o per disgusto) ben prima d’aver raggiunto l’ultimo capitolo. Questo – parlando alla Biennale del Libro di Brasilia e lasciando di stucco una platea in attesa di ben altre parole – ha detto un paio di settimane or sono, senza batter ciglio, lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Oggetto d’una tanto tagliente e spietata critica è il libro che, da lui stesso scritto quaranta e passa anni fa, più d’ogni altro gli ha fin qui regalato non solo fama e successo, ma anche quella sorta di sacrale ‘status profetico’ che solo alle parole scolpite nella pietra viene di norma riservato.
Il libro è, naturalmente, Le vene aperte dell’America Latina, pubblicato per la prima volta nel 1971 e quasi subito diventato – per una molto consistente porzione della sinistra – la storia dell’America Latina per eccellenza. O, ancor più esattamente (visto che d’un vero e proprio libro di storia in realtà non si trattava): il più illuminante distillato di quella storia, la sua vera essenza, il suo ‘succo’ più intimo e rivelatore. Al punto che il senso del tutto – in ogni sua parte raccontato attraverso una successione di ‘pennellate’, spesso splendide, ma molto più simili, per capacità di sintesi, ad aforismi che ad analisi – già era per intero contenuto nella prima frase testo: “La divisione internazionale del lavoro consiste nel fatto che alcuni paesi si specializzano nel guadagnare ed altri nel perdere…”. O, ancor più, nel titolo del suo primo capitolo: “La povertà dell’uomo come risultato della ricchezza della terra”.
In sostanza: l’America Latina è povera, perché un’altra parte del mondo – la Spagna imperiale prima, la Gran Bretagna poi e, infine, gli Stati Uniti d’America – l’ha sistematicamente depredata delle sue risorse naturali. E perché, per meglio depredarla, l’ha, massacro dopo massacro, sistematicamente sottomessa. Una verità, questa, che – così esposta – non lascia evidentemente spazio alcuno a sfumature, a chiaroscuri, o a processi storico-politici che prevedano colorature diverse dal bianco o dal nero. Nelle “vene aperte” di Galeano, tutto quello che non è puro orrore è pura redenzione. ‘Corren años de revolución, tiempos de redención’, si legge sempre nell’introduzione. E redenzione significa, fondamentalmente, lotta armata contro un’ingiustizia cominciata con l’arrivo delle caravelle di Colombo. “Quando Alexander von Humbold investigò i costumi degli indigeni dell’altopiano di Bogotà, constatò che gli indios chiamavano quihica le vittime delle cerimonie rituali’, scrive Galeano’. E aggiunge: ‘Quihica significava “porta”: la morte di ogni eletto avrebbe aperto un nuovo ciclo di centottantacinque lune…’. Insomma: in un angolo ‘noi’, l’America Latina figlia dell’originale stupro della ‘Conquista’ e pronta ad un sanguinoso riscatto. E nell’altro ‘loro’, i predoni stranieri e le oligarchie a loro legate. Bene contro male. E poco importa se ‘bene’ significa anche – come nel caso delle quihica – sacrifici umani. Quello che importa è trovarsi, sempre e comunque, sulla sponda opposta dell’ ‘imperialismo’…
‘Le vene aperte’ appartiene, con tutta evidenza, alla stagione – per molti aspetti affascinante e feconda, se debitamente contestualizzata e rianalizzata – dei Dannati della Terra di Franz Fanon, del ‘foquismo’ guevarista, del ‘terzermundismo’ e delle più radicali versioni della ‘teoria della dipendenza’. Tutte cose già passate al vaglio della Storia e debitamente archiviate nelle parti che – oltre l’ancor validissima, anzi indispensabile denuncia d’incancellabili ingiustizie – i fatti hanno rivelato insensate, false o controproducenti. Tutte, ma non l’opera di Galeano che alle ingiurie del tempo era fino a ieri parsa sopravvivere con la tenacia che solo i testi sacri riescono a sprigionare nella loro primordiale, manichea semplicità. E chissà che proprio di questo – della sacralità d’un testo con il quale tutti hanno continuato ad identificalo, su di esso appiattendo tutti i suoi scritti successivi – Eduardo Galeano volesse finalmente liberarsi con la sua sorprendente ed implacabile ‘abiura’ di Brasilia. ‘Non mi pento di averlo scritto – ha detto di fronte ai suoi stupefatti spettatori – ma è certo che quando l’’ho scritto non avevo una preparazione economica sufficiente’. Ed è ancor più certo, ha aggiunto, è che il suo linguaggio, quello d’una sinistra sempre uguale a sé stessa, è ormai ‘d’una insostenibile pesantezza…’. Parole che, almeno in apparenza, non lasciano via scampo. Ed anche, ovviamente, parole tardive ma giuste, come può agevolmente constatare chiunque – ignorando il consiglio dell’autore – si prenda oggi la briga di rileggere le ‘vene aperte’. Un libro la cui ideologica senilità ti viene ostentatamente incontro fin dalle prime pagine, laddove – giusto per fare un esempio – tutte le politiche di controllo delle nascite vengono dall’autore bollate come ovvi (e molto imperialistici) tentativi di derubare l’America Latina di nuove generazioni di guerriglieri. ‘In America Latina risulta molto più igienico ammazzare i guerriglieri nell’utero, che non nelle sierras o per le strade…’.
Caso chiuso (o meglio, vene chiuse) dunque? Certamente no, perché, com’è noto, i testi sacri sanno resistere anche alle abiure degli autori. Non più di quattro anni fa, nel corso d’un vertice internazionale, Hugo Chávez – ultimo erede d’una tradizione caudillista che Galeano aveva in più punti difeso o, addirittura, esaltato nelle sue ‘vene aperte’ – proprio il libro dello scrittore uruguayano pubblicamente e spettacolarmente regalò a Barack Obama…Che l’abbia fatto, il ‘comandante eterno’, per distruggere, sotto il plumbeo peso d’un linguaggio ormai fuori della storia (Galeano dixit), l’ultimo esponente della prepotenza imperiale?