La risposta, a mio parere, sta nel fatto che il M5S ha reintrodotto, in un ambiente politico debilitato, stagnante e sostanzialmente uniforme, un elemento di aperta conflittualità, dunque, ad un tempo, di differenziazione, polarizzazione, radicalizzazione del confronto sociale. Il senso di questa nuova forma di lotta, per essere adeguatamente compreso, necessita però di un inquadramento storico preliminare.
È il 1976 quando s’insedia il Governo Andreotti III ‒ un Governo monocolore di Solidarietà Nazionale che si avvale dell’appoggio esterno dei Comunisti, appoggio che viene rinnovato anche per il Governo successivo (sempre presieduto da Andreotti) che rimarrà in carica fino al 20 marzo 1979. Negli anni della contestazione e delle ‘autonomie’ extraparlamentari, quando, sia nel mondo operaio che in quello studentesco, prende forma un’alternativa radicale schierata apertamente a sinistra, il PCI, anziché sostenerla, l’avverte come minaccia e reagisce facendo fronte comune col potere costituito ‒ illudendosi così di poter finalmente ottenere quella legittimità istituzionale che gli permettesse, in un secondo momento, di costituirsi come vera e propria alternativa intra-atlantica alla monocrazia biancoscudata. Il caso Moro (16 marzo-9 maggio 1978) non è che il suggello di quest’abbraccio mortale ‒ il capolavoro politico di Andreotti ‒ per cui il PCI, pur di non concedere nulla a sinistra, è costretto al paradosso di sostenere istituzionalmente il cappio politico abilmente allacciato dai democristiani che, senza nemmeno agire, guardano i ‘compagni’ che, dimenandosi, se lo stringono da soli.
Si consolida in quegli anni quella che a mio parere rappresenta una sindrome endemica alla democrazia italiana e che definirei moderatismo istituzionale. (Va detto per inciso che massimo responsabile di tutto ciò è stato proprio il PCI di Berlinguer, a dimostrazione del fatto che anche essere “una brava persona” è qualità certo apprezzabile, ma nient’affatto sufficiente per realizzare un progetto politico).
Il moderatismo istituzionale prevede sostanzialmente questo: le istituzioni ‒ quindi il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, ecc. ‒ possono tollerare solo un grado di conflittualità minima, essenzialmente fittizia, che, pur acconsentendo a qualche fisiologico assestamento, non intacchi mai alcuni capisaldi fondamentali, su tutti: la ridistribuzione del reddito, il metodo criminale che governa l’assegnazione degli appalti pubblici, il sistema istituzionale delle tangenti, l’evasione fiscale, la connivenza tra potere mafioso e potere politico, gli interessi del Vaticano, il baronato clientelare accademico, la lottizzazione della RAI, il potere bancario e di alcuni grossi gruppi industriali, l’impunibilità sostanziale dei colletti bianchi, ecc. Insomma, sotto il paravento di una moderazione politica inclusiva, i raggruppamenti partitici più rappresentativi ‒ DC, PSI e PCI prima, FI e DS, PdL e PD poi ‒, hanno sempre e comunque garantito che, quanto alle questioni succitate, non si verificassero mutamenti di sorta. È un tacito accordo che vige ormai da quasi quarant’anni, che ha i suoi riti, una sua retorica (che il Renzi imbonitore nazionalpopolare interpreta peraltro benissimo) e pratiche istituzionali precise, tutte tese da un lato alla conservazione dello status quo, dall’altra all’esclusione sistematica di ogni forma di conflittualità politica che possa incrinare l’omertoso patto sottostante. Basta ascoltare un ‘monito’ a piacere di Napolitano, oppure un’omelia moralizzatrice di Laura Boldrini ‒ o ancora: leggere un editoriale a scelta tra Scalfari, Mieli o Romano ‒ per capire di cosa si parli.
Ebbene, Grillo e il M5S, sia nei modi che nei fatti, rappresentano per questi signori l’inatteso: una forza oggi istituzionalmente determinante la quale, anziché accettare il moderatismo bipartisan ed entrarne a far parte, si propone invece di sovvertirlo. Lo slancio anti-istituzionale che connota l’agire del Movimento non è disprezzo per le istituzioni, bensì la necessaria conseguenza del fatto che, dopo quarant’anni di consociativismo, le istituzioni stesse sono incancrenite, organizzate in modo tale da garantire sempre e solo una difesa ad oltranza dell’assetto socio-economico vigente.
Ecco allora che affinché si determini una rottura di quest’ordine immobilista, è necessaria una tonificante inserzione di conflittualità: rompere lo stallo tramite una politica della discordia produttiva che identifichi in modo chiaro chi sono i nemici senza instaurare con essi alcun tipo di mediazione moderatrice.
L’aveva compreso egregiamente Carl Schmitt quando scriveva che “la possibilità reale della lotta […] dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica […]”. Come a dire: non c’è politica senza conflitto, senza che siano chiari i nemici contro cui schierarsi. “Infatti solo nella lotta reale” ‒ continua Schmitt ‒ “si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamente politica”. Altro che ‘antipolitica’: rispristinando la conflittualità come elemento fondativo e strategico, dopo quarant’anni di moderazione conservatrice, il M5S ha riportato in auge la politica sic et simpliciter.