Festival di Cannes, red carpet del film 'Jimmy's Hall'A ciascuno la sua Palma. C’è chi ne ha già vinta una, con Il vento che accarezza l’erba nel 2006, e a 78 anni ci prova per la 12esima volta – record – con il suo nuovo, forse l’ultimo, film: Ken Loach, Jimmy’s Hall. C’è chi, a 25 anni, ci prova per la prima, con il quinto film e “un soggetto che conosco meglio di ogni altro, che amo più di tutto: mia madre”: il canadese Xavier Dolan, Mommy. C’è chi, infine, si avvicina ai 40 anni, e con la sua terza regia non si affaccia in competizione, eppure possiede “un certo sguardo”: Asia Argento, la nostra Incompresa al Certain Regard.

Mentre per il toto Palma si aspettano oggi i due ultimi film in Concorso, Leviathan del russo Andrey Zvyagintsev e Clouds of Sils Maria del francese Olivier Assayas, Ken il Rosso ritrova la voglia. Jimmy’s Hall non è il suo addio al cinema, quello che lui stesso aveva lasciato presagire durante la lavorazione: “L’ho detto nel momento di massima pressione, quando non avevamo girato ancora nulla e la montagna che ci trovavamo davanti era molto alta”. Della serie, vedi Cannes e poi rivivi, il regista annulla il rientro ai box: “Ho abbastanza benzina per un altro piccolo film. Mollare è davvero dura”. Tra dramma e qualche spiraglio di commedia, Jimmy’s Hall mette il costume e torna nell’Irlanda del 1932, con Jimmy Gralton (Barry Ward, poco carisma) di ritorno al villaggio dopo una decade in America: un attivista “in odore” di comunismo, che deve difendere una sala da ballo polivalente da preti, fascisti e reazionari tutti. La storia è vera e, sceneggiata dal fido Paul Laverty, apre al paradigma, a Jimmy e i suoi fratelli attuali: “Abbiamo bisogno – rivendica Ken – di eroi come lui, che si oppongono ai poteri forti con coraggio e integrità: oggi penso a Julian Assange, Edward Snowden, Malala”.

Dopo la rabbia (L’altra verità, sui contractor in Iraq), l’evasione (La parte degli angeli, whisky e neet), Loach affida a Jimmy il malinconico passaggio di testimone tra la sua e le nuove generazioni: un po’ moscio, nonostante gli applausi, il “riflusso” la fa da padrone. Eppure, almeno a parole, Ken non molla, anzi: “Ormai da 50 anni noto che chi scrive dei film non sopporta i personaggi della working class, i proletari che sanno di quel che parlano: preferiscono vittime, criminali e probabilmente una moglie maltrattata o due”. E la critica è servita. La stessa che, con più di un’eccezione, indica Mommy tra i papabili per vittoria o premi pesanti: una vedova sboccata e irresistibile, un figlio 15enne sboccatissimo e incontenibile, una vicina balbuziente , per un ménage à trois di ottimi attori (nell’ordine Anne Dorval, Antoine Olivier Pilon e Suzanne Clément), il fascino dell’immagine quadrata (1:1), il Dolan touch sensibile ed empatico, ma anche il fastidio per una sceneggiatura che non sa dove andare a parare. Vedremo che farà Mammina. E formato famiglia è anche Incompresa, scritto da Asia con Barbara Alberti e attaccato ad Aria (Giulia Salerno, chapeau), una bambina di 9 anni messa in mezzo da papà (Gabriel Garko, sì, lui) e mamma (Charlotte Gainsbourg) che si stanno separando: volano gli stracci, e non solo, e Aria si ritrova con borsone e gatto nero sballottata tra due genitori che non la vogliono. Siamo nel 1984, e le tocca pure una notte al parchetto, povera lei, ma la Argento non indora la pillola: “Anche chi dice che ha avuto un’infanzia felice, ha subito profonde ingiustizie da piccolo: succede a tutti, io volevo raccontare la famiglia come in Italia non si fa, per me quella perfetta non esiste”.

Se Giulia la scopre comunista: “Quando si arrabbia mangia i bambini”, Asia rifiuta i legami autobiografici: “Lo chiedete a tutti i registi? No? E allora che cazzo me lo chiedete a fare! Tutti i genitori sono ingombranti, e questo film non è terapia”. Ma l’Italia non finisce qui: Fulvio Risuleo con il corto Lievito madre prende (ex-aequo) il terzo premio della Cinéfondation, mentre tra i 13 registi del collettivo I ponti di Sarajevo, dove un secolo fa si “innescò” la Prima Guerra Mondiale, ci sono Leonardo Di Costanzo con L’avamposto, per cui “la paura del soldato è ribellione”, e Vincenzo Marra con Il ponte teso tra Sarajevo e Roma: “Molti sostengono che il tumore sia una malattia dell’anima, ebbene, in Bosnia sono aumentati”.

il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2014

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