Dal collaudato Carlo Cracco alla new entry Antonio Canavacciuolo, i talent e i programmi che si occupano di cibo continuano a proliferare. Eppure, anche in questo caso, il nostro Paese sconta un ritardo di parecchi anni rispetto al resto d'Europa
Da un po’ di tempo in televisione è tutto uno spadellare. La cucina e il cibo sono forse gli argomenti più presenti in assoluto negli schermi di tutto il mondo, insieme ai programmi per dimagrire, che costituiscono l’altra faccia della medaglia (e forse qualche domanda bisognerebbe porsela).
Non è certo una moda recente. In Inghilterra, vera patria di questo filone, programmi di grosso successo legati a questi temi ci sono da più di trent’anni. Uno dei primi, Food and Drink, è andato in onda ininterrottamente su BBC Two, dal 1982 al 2002, per poi riprendere nel 2013. Sempre dalla Gran Bretagna vengono alcuni degli chef di maggior fama mediatica (e col conto in banca più gonfio): il “cattivo” Gordon Ramsey, che sul suo brutto carattere ha costruito un impero di svariati milioni di sterline, e Jamie Oliver il “buono”, proprietario di quasi 30 ristoranti in tutto il globo e che adesso si batte contro il junk food nelle mense scolastiche.
Stranamente, l’Italia è arrivata per ultima. Forse qui da noi si dava il cibo per scontato: fatto sta che, a parte alcuni rari precursori, abbiamo dovuto attendere molti anni per vedere sui nostri schermi format simili a quelli che all’estero furoreggiavano già da tempo. La Prova del cuoco, per esempio, che sostiene con onore ancora oggi il mezzogiorno di Rai1, è del 2000, mentre la versione originale inglese (Ready steady cook) risale al 1994.
Nel frattempo abbiamo recuperato alla grande e ora i programmi di cucina riempiono trionfalmente i palinsesti di quasi tutte le reti. Ce n’è, è proprio il caso di dirlo, per tutti i gusti. Unti e bisunti (Dmax), Man vs Food (sempre Dmax) e Orrori da gustare (Discovery Travel & Living e Dmax) coprono la parte più trasgressiva e meno tradizionale (e sono forse quelli più divertenti). Benedetta Parodi (Molto Bene, su Real Time) interpreta invece la parte della moderna casalinga con poco tempo a disposizione e un po’ imbranata, che si sporca il vestito buono mentre si affaccenda tra i fornelli (un grembiulino sopra no?). Più compiaciuto l’approccio di Alessandro Borghese prima e Simone Ruggiati poi, che in Cuochi e Fiamme (la7 e la7d) mettono in scena gare culinarie a tema. Da poco è partito invece Staffetta in cucina (Lei), che cerca di introdurre un timido elemento di novità con una dinamica di gioco, a dire il vero un po’ stravagante (per quale ragione i 3 concorrenti di ciascuna squadra si devono alternare ai fornelli?).
E poi ci sono i talent, con Masterchef in testa, declinato anche nella versione junior, meno cattiva ma altrettanto efficace (SkyUno), a cui bisogna aggiungere The Chef (la5), che non è altro che una copia modesta. Sempre su SkyUno abbiamo poi Hell’s kitchen Italia, con Carlo Cracco che per interpretare il ruolo dello chef carogna che ha fatto la fortuna di Gordon Ramsey, tratta i partecipanti come il sergente Hartman tratta Palla di Lardo in Full Metal Jacket : “Questo piatto fa cacare!”, “Se bruci il branzino sei un coglione!” sono solo alcune delle più bonarie critiche ai concorrenti/reclute. “Sì, chef!”, deve rispondere sempre e comunque il tapino di turno.
A questa enorme quantità di programmi, si aggiungono poi i canali dedicati interamente al cibo, che per ora sono due (a settembre se ne aggiungerà un terzo, targato Fox): da un lato il serioso, compassato (e un filo supponente) Gambero Rosso Channel, dall’altro la ben più popolare Alice Tv, che agli chef stellati preferisce gente come Marisa Laurito.
Per concludere, una menzione speciale va ad Antonino Cannavacciuolo, che si distingue tra la massa di chef e presunti tali se non altro per la stazza (Cucine da incubo, FoxLife). Il suo viaggio per i ristoranti malmessi del Paese è anche un viaggio nell’Italia provinciale; lo chef cerca di dare un po’ di fiducia ai gestori strigliandoli con irruenza partenopea (“Azz! Tu si o’sceff!”) quando non tengono abbastanza alto il buon nome della categoria.