“Purtroppo s’e’ fatta l’Italia ma non si fanno gl’Italiani”, diceva Massimo D’Azeglio ai tempi in cui la questione era l’unificazione dell’Italia. Purtroppo non s’e’ ancora fatta l’Europa e siamo anni luce dal fare gli europei, si potrebbe affermare oggi, a distanza di un secolo e mezzo abbondante. I cittadini che la compongono hanno inghiottito l’Europa come una minaccia, non molto distante dagli ufo, dalla mucca pazza e dal buco dell’ozono, e la tengono li, indigeribile, come un peso sullo stomaco che brucia ma a cui ci si è rassegnati.
L’Unione europea appare ai più come una malattia contratta non si sa bene dove nè quando, alla cronicità della quale bisogna rassegnarsi, accettando di prendere le medicine regolarmente e di condurre uno stile di vita molto morigerato. L’idea che, ribellandosi alle prescrizioni mediche, la malattia possa peggiorare, con conseguenze tanto spaventose quanto imprevedibili, genera un timore che induce i pazienti alla sottomissione. E la sfilata di specialisti che propongono fantasiose diagnosi, prognosi avanguardistiche, interventi d’urgenza, tutti rigorosamente eterogenei e inconciliabili tra loro, non fa che aumentare il terror-panico collettivo.
Stupisce pensare che quello che doveva essere un sogno, il ‘sogno europeo’, il progetto rivoluzionario, parto del confino nell’isola di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, concepito come antidoto alla guerre europee, sia diventato un’epidemia transnazionale alla quale non si riesce a trovare una terapia. Qualcosa è andato storto. A partire dall’ordine degli addendi che, con buona pace dei matematici, ogni tanto il risultato lo cambia: esiste un solo precedente storico in cui alla formazione di uno stato si sia anteposta la creazione di una moneta? L’euro, orfano di genitori politici, altro non è che un contenitore vuoto, quel contenitore che avrebbe dovuto contenere il sogno europeo. Che affezione può produrre nelle persone il conio di una moneta che s’impone dall’alto, supplendo al vuoto di progetti da perseguire con un pieno di regole da rispettare?
Il reparto di eurologia trabocca di pazienti che, estenuati dal loro morbo, talvolta si lasciano tentare da astruse cure alternative, simil metodo Stamina, che suggeriscono di uscire dall’euro, abbandonare l’ospedale e fare come se non ci si fosse mai ammalati. Ma, ahiloro, il virus ormai è in circolo e l’unica reazione possibile è quella di un sistema immunitario politico-sociale che reagisca ad esso.
Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia, sposato in seconde nozze con la figlia di Colorni, uno dei tre confinati-sognatori di Ventotene, fu tra i primi a segnalare come l’euro, applicato mediante quel sistema, fosse “un’orribile idea”. Lo stesso Sen oggi, a proposito dell’uscita dalla moneta e delle illazioni che lo vedono promotore di questa iniziativa, risponde “a me non piace l’ottovolante, ma non per questo mi butto dalle montagne russe”.
Perché mentre i cittadini europei erano alle prese con le loro vicende cliniche, l’assetto globale è cambiato: i continenti si contrappongono a blocchi nel tentativo di prevalere economicamente gli uni sugli altri, un ribaltamento dell’eterno ordine costituito che ha sempre visto l’Occidente dominare sull’Oriente incombe all’orizzonte, il web ha cambiato la percezione delle distanze e dei confini, dando vita ad una generazione che vivrebbe il ritorno ad un arroccamento nazionale come una vessazione.
Nell’avvicendarsi dunque di pareri di valenti economisti che, seppur valenti, sanno di non poter offrire alcuna garanzia circa le loro previsioni vista l’assenza di precedenti storici, l’unica soluzione tangibile e meno aleatoria, sembra quella di fare appello alla politica e alla cultura, affinché i pazienti comincino a sentirsi parte attiva della loro guarigione e il pacco vuoto dell’euro torni a riempirsi del vento di Ventotene.