Non è che le manette in banca non si fossero mai viste. Però un tempo venivano applicate – sporadicamente – a finti banchieri lottizzati dalla politica, incaricati di partito con delega al saccheggio di denaro pubblico. Adesso nel mirino ci sono i mitici privati, quelli che hanno metodicamente distrutto l’economia italiana tappando la bocca ai (pochi) critici con le loro litanie incomprensibili e arroganti sulle virtù magiche del Dio Mercato. La storia sta riservando alla “Banda degli onesti” un finale a sorpresa, e non solo per chi viene raggiunto dai provvedimenti giudiziari dopo decenni di tranquilla impunità, ma per gli stessi cittadini che assistevano da anni, con totale senso di impotenza, alle scorrerie di un’oligarchia coesa e prepotente.
Nell’originale degli anni ’50 la banda degli onesti composta da Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia desisteva – dopo lunga preparazione – dalla produzione di banconote false scoprendo che il crimine era impresa fuori della sua portata psicologica. Oggi la storia si ribalta: una cricca di malfattori continua a rivendicare etica e correttezza granitiche, con una supponenza insopportabile se solo la si confronta con i fatti. Alzi la mano il banchiere, il finanziere, il grande imprenditore che non è indagato per qualche impresa a nove zeri. Certo, vale la presunzione di innocenza. Ma qui c’è qualcosa che va al di là. La raffica di inchieste che in pochi giorni ha travolto il Gotha del potere finanziario – l’arresto dei potenti fratelli Magnoni, lo scandalo Ubi Banca che coinvolge il patriarca di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli, i domiciliari per Giovanni Berneschi, ex padre-padrone di Carige caro al guru delle fondazioni bancarie Giuseppe Guzzetti – indica che qualcosa sta accadendo anche dentro la magistratura. Assordati dalle contumelie di B. contro le toghe rosse con la manetta facile, gli italiani hanno finito per non notare più certe timidezze, se non compiacenze, ben più diffuse nei palazzi di Giustizia delle smanie giustizialiste. L’impressione è che qualcosa sia cambiato, che qualche diga si sia rotta e che la violenta guerra scoppiata dentro la procura di Milano non sia estranea a tutto ciò.
Un altro elemento lega le inchieste. La magistratura si muove con repentina accelerazione su fatti vecchi di anni, noti da sempre, e sospetti. Nella vicenda della fusione tra Unipol e Fonsai l’avviso di garanzia per corruzione è stato recapitato a Giancarlo Giannini, presidente dell’Isvap, l’ente di vigilanza sulle assicurazioni, un anno e mezzo fa. L’intercettazione telefonica di Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex ministro Annamaria Cancellieri ed ex direttore generale Fonsai, che denuncia le porcherie combinate dalla “banda degli onesti” per truccare i concambi azionari tra Unipol e Fonsai è nota da sei mesi. Peluso, secondo una testimonianza raccolta dai magistrati, sarebbe scappato da Fonsai (verso Telecom Italia) per non restare implicato in acrobazie da galera. Sapevamo tutto perché tutto era fatto alla luce del sole. Così si esercita il potere.
Niente sotterfugi, tutto in piazza. Chiedete a Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef ed ex senatore Idv. Non c’è scandalo finanziario che non parta da un suo esposto. Anche Unipol-Fonsai: Lannutti presenta l’esposto a ottobre del 2012 su fatti noti ed evidenti e gli rispondono che ha le traveggole, che è tutto in regola. Basta saper compilare comunicati come quello diffuso ieri dall’Unipol sulla fusione sotto inchiesta: “L’operazione si è perfezionata lo scorso 6 gennaio, dopo un iter durato circa 2 anni, nel corso dei quali sono state ottenute tutte le autorizzazioni ed approvazioni, previste dalla vigente normativa, da parte delle Autorità di Vigilanza competenti”. Testuale, maiuscole comprese. Ma che significa? Significa che la “banda degli onesti” si è mossa per anni attorno a quella sottile linea di confine che separa il territorio del reato dal mondo delle “operazioni di sistema” care a Bazoli.
Le operazioni di sistema sono quelle che servono a puntellare il potere declinante dell’oligarchia, e vengono travestite da generose invenzioni a favore dell’interesse generale. E di fronte al bene comune in gioco le sussiegose autorità di vigilanza, Bankitalia e Consob, sanno come abbassare rispettosamente i loro fari. Consigliano, approvano, autorizzano tutto. Non si accorgono mai di nulla. Poi quando arrivano i magistrati, come al Monte dei Paschi, accusano il banchiere di turno di “ostacolo alla vigilanza”: cioè di aver rubato senza avvertire le guardie. Ma possibile che la vigilanza, che sta lì per prevenire (perché per reprimere ci sono magistrati e poliziotti) non si accorga mai di niente? Si, è possibile se qualcuno interpreta il suo ruolo come “vigilanza di sistema”. Per fortuna il mercato, quello vero, ci vede meglio della vigilanza. Ieri hanno indagato il capo di Unipol-Fonsai ma in Borsa è crollato anche il titolo di Mediobanca. Indovinate perché? C’è un giudice (forse) a Milano. Sicuramente ce n’è uno invisibile dentro i computer di piazza Affari.
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