“Avevo sei anni quando venni chiamata per la prima volta ‘negra’, nove quando risposi agli insulti, tredici quando cominciarono le prime aggressioni dei compagni di scuola”. Karima non usa mezzi termini nel raccontare la sua storia di bambina nera di origine liberiana nata e cresciuta in Italia, eppure non ancora italiana, malgrado oggi abbia 30 anni.
Annie Karima Gehnyei ha rappato tutta la sua rabbia. Un flow duro che sgorga nella sua lingua madre, il “pidgin english”. Dieci tracce compongono il suo primo album, 2G (Soupu Music, 2014) che sta per la seconda generazione di immigrati. Le basi musicali le ha composte lei, campionando tra l’altro Fela Kuti e Last Poets. 2G è un disco manifesto, un urlo di protesta contro un paese che non riconosce come italiani quelli che nascono qui da famiglie straniere. Un suono militante ed esplicito a partire dal primo singolo, Orangutan, uno schiaffo in versi indirizzato a Roberto Calderoli, il leghista che accostò l’animale all’ex ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. L’album, che si può ascoltare in streaming, fonde con gusto e originalità l’hip-hop con l’elettronica e i tradizionali suoni africani. Karima lo porterà il 18 luglio sul palco principale dello storico Arezzo wave love Festival.
Quando è arrivata la tua famiglia in Italia?
I miei genitori sono arrivati in Italia nel ’78, perché a mio padre fu offerta la possibilità di lavorare nell’ambasciata liberiana. Il loro desiderio era quello di ritornare subito dopo, ma per una serie di motivi, tra cui la mia nascita decisero di restare.
Come hai conosciuto la musica?
È una passione che mi ha trasmesso mio padre che è un grandissimo collezionista di dischi. Ho iniziato facendo la ballerina, poi la vocalist nella house music fino al momento in cui ho capito che c’era qualcosa che mi mancava. Sentivo un bisogno naturale di trovare una dimensione più mia da qui la volontà di fare rap.
Perché hai chiamato il tuo disco 2G?
2G è un’etichetta creata apposta per ghettizzarci. Con 2G, in Italia s’intende sia la seconda ondata di immigrati che sono arrivati in Italia, sia i figli degli immigrati. Diviene così un termine classista che ci mette tutti sullo stesso piano. Invece, c’è una grande differenza tra chi arriva in Italia con i suoi trascorsi e chi, come me, nasce qui. Sono italiana e allo stesso tempo figlia di immigrati, e in questo disco ho cercato di mettermi in entrambi i panni. Noi viviamo in una terra di mezzo, da una parte non sentiamo nostra la terra che calpestiamo, dall’altra non sappiamo nulla delle nostre origini. Consiglio ai miei fratelli africani di uscire dalla solitudine e soprattutto di connettersi con le proprie radici, perché si tende a perderle.
Perché la scelta di esprimerti nella tua lingua madre?
In primis perché era una lingua che stavo perdendo. Da una parte volevo riappropriarmi delle mie radici, dall’altra desideravo guardare oltre l’Italia per arrivare anche a un mercato estero.
Come nasce il primo singolo del disco, Orangutan?
Ne avevo fin sopra i capelli di sentir paragonati i neri alle scimmie, è una cosa che mi porto dall’infanzia ed è vergognoso che a dire queste cose siano dei politici. Ci sono rappresentanze importanti come, calciatori, ministri, ecc., che potrebbero far sentire la loro voce, e non lo fanno. Questo mi fa rabbia.
Cosa chiederesti alla politica italiana?
(Sorride). Cosa potrei chiedere loro se non l’unica cosa che chiedo da 30 anni: lo ius soli, l’acquisizione della cittadinanza come conseguenza del fatto di essere nata in Italia, anche se da genitori stranieri.