Pantanide, secondo canto. Stavolta, un bel canto. Quello di un giovane sardo alto e magro – pesa appena sessanta chili per un metro e ottantun centimetri – che da ragazzo giocava a tennis e a pallone, ma per andare a far sport utilizzava la bici e poi “la bicicletta mi piaceva”. Si chiama Fabio Aru, è nato il 3 luglio 1990 a Villacidro, papà agricoltore di arance, tamarindi e mandarini, madre insegnante in quel della vicina San Gavino Monreale (Santu’Engiu nel dialetto del Campidano), capitale dello zafferano perché la cittadina è il maggiore produttore nazionale. Ha vinto una tappa importante, mitica per i fans del Pirata: quella che arriva a Plan di Montecampione, affrontata dalla corsa rosa solo tre volte.
Nel virtuale album delle imprese pantaniane, la figurina di Montecampione è di quelle doppie, perché contempla l’avversario frantumato dal campione di Cesenatico, il russo Pavel Tonkov. Sul palcoscenico del Giro Memorial Pantani, infatti, in questa domenica di voto europeo, è andata in scena la seconda arrampicata consecutiva, dopo l’ascesa al Santuario di Oropa: un altro finale ammazzagambe, ben 19,350 chilometri che hanno issato i corridori dal lago d’Iseo alla stazione di sci del Plan di Montecampione, quota 1665. Millequattrocentosessantun metri di dislivello. Assaggi di veleni montani. Le Alpi che asfissiano saranno in programma martedì, giovedì, venerdì e sabato, con il micidiale Zoncolan a condire l’inferno dei “girini”. Intanto, il Montecampione ha abbassato qualche maschera. E ha rivelato il talento e il coraggio di un giovane che ha iniziato a correre in bici, facendo ciclocross, a quindici anni.
E per caso: “Mai avrei immaginato che sarebbe diventato il mio mestiere”, confessa oggi il filiforme Aru (altro che piccolo tamburino sardo di deamicisiana memoria…). Come Pantani che si mise in luce fin da dilettante, lo stesso è avvenuto per Aru. Già nel 2012 viene acchiappato da una grande squadra, l’Astana, ed esordisce al Giro del 2013, per aiutare capitan Vincenzo Nibali nelle tappe di montagna. Compito che ha eseguito alla perfezione. Quest’anno avrebbe dovuto essere lo scudiero di Michele Scarponi, in assenza di Nibali che ha preferito il Tour de France. Lo sventurato Scarponi è rimasto coinvolto nella maxicaduta di Montecassino, e ha dovuto dire addio alle sue ambizioni. La ragion di squadra ha promosso Aru capitano. Con l’avallo di un altro importante elemento dell’Astana, Paolino Tiralongo, “lui è diventato il mio secondo papà, per di più abitiamo molto vicino”, non lontano da Bergamo.
Sedici anni fa, il 4 giugno del 1998, Marco Pantani e Pavel Tonkov si ritrovarono ben presto davanti a tutti. Erano i più forti. Pantani sfoggiava una forma stratosferica. Andava all’arrembaggio. S’inarcava sui pedali, la bici ondeggiava come vela al vento ed erano scatti che avrebbero stroncato chiunque. Non Tonkov, quel giorno. Il coriaceo Pavel replicò colpo su colpo. Il duello incollò milioni di italiani davanti al teleschermo, mica le miserabili audience di questi giorni. I due cominciarono un lunghissimo duello all’ultima pedalata. Il russo non mollava il romagnolo. Spettacolo nello spettacolo. Il coriaceo Tonkov si arrese soltanto a tre chilometri dal traguardo, Pantani era in stato di grazia. Vincerà il Giro, andrà al Tour, vincerà pure quello. Questa la premessa storica. Ma la storia non si cita a sproposito.
Proprio a tre chilometri dal traguardo, Fabio Aru che galleggiava sornione dietro la maglia rosa Rigoberto Uran Uran in non grande spolvero, che controllava il polacco Rafal Majka e soprattutto l’indecifrabile Nairo Quintana, con Cadel Evans in difficoltà, decide di mollare la compagnia. Schizza via, lasciando secchi gli avversari. Vuole raggiungere la coppia Pierre Rolland–Fabio Duarte. Uran Uran risponde, lo raggiunge, i due partono via. Però Uran Uran non collabora. E dietro, per la prima volta, vediamo Quintana reagire. Apparentemente senza sforzo si avvicina alla maglia rosa e ad Aru. Sembra che tutto si plachi. Aru non è d’accordo. Rilancia l’azione. Quintana non reagisce. Uran sa che se rincorre il sardo rischia d’imballarsi. Rimane con Quintana. I due colombiani si scambiano qualche parola. Aru, intanto, va come quel Pantani di tanti anni fa. Uomo solo al comando. Ha fatto il vuoto. Quintana si libera di Uran Uran.
L’ordine di arrivo somiglia ad una prima sentenza di questo Giro un poco torpido. Come sempre, e per fortuna, sono le salite vere a delineare i valori, a decretare vinti e vincitori. Aru lascia Duarte a 21”. Quintana è terzo, a 22”, davanti a Rolland (stesso tempo). Uran Uran taglia il traguardo con 42” di ritardo. Maika è a 57”. Evans è decimo, a un minuto e 13” come Wilco Kelderman e Domenico Pozzovivo. Lo scalatore lucano ha mostrato i suoi limiti. Poi, segue l’intendenza. La classifica generale, prima del terzo (!) e ultimo riposo, parla chiaro: Uran in rosa, Evans secondo a un minuto e 3”. Terzo Maika a 1’50”, quarto Aru a 2’24”, davanti a Quintana che è staccato dal connazionale di 2’42”. Sesto Pozzovivo a 2’42”, settimo l’olandese Kelderman, a 3’04”. I numeri dicono che questi corridori possono ancora vincere il Giro.
Dovessi puntare, metterei Quintana e Aru in pole position. Perché le ultime tappe premiano gli scalatori puri. Aru è un outsider: è ben pilotato, ha classe e ha le idee molto chiare: “Nella mia testa questo Giro è da novembre, da quando ho cominciato a prepararlo. Non so ancora quali possano essere i miei limiti. Oggi ero incredulo per quello che stavo facendo. Non sapevo quanta energia avessi nelle mie gambe, ho pensato a spingere forte sui pedali, e ho provato emozioni che non riesco a spiegare con le parole. Cerchi di realizzare un sogno per il quale hai lavorato tanto, tutti i giorni dell’anno. Sentivo il tifo della gente, vedevo gli striscioni e i cartelli per Pantani, lui era un fuoriclasse. Io sto cercando di imparare. Non è che non credo nei miei mezzi, però cerco sempre di restare coi piedi per terra. Non faccio promesse a vanvera”.
Non promesse, ma premesse, queste sì che ci sono, eccome. E’ la sua prima vittoria, ma un successo che conta: “Andiamoci piano con gli elogi. Ho ancora molto da dimostrare. Non mi monto la testa per questo: sono sempre quello di prima”. Un ragazzo “normale”, cui piace viaggiare, sentire musica, stare con la sua ragazza torinese che si si chiama Valentina e che lo motiva molto. Naviga molto in Internet, ha una pagina Facebook e sa parlare con ottima proprietà di linguaggio. Ha fiducia nel futuro di questo sport: “La nuova generazione italiana sta dimostrando belle cose”. Bisogna dargli fiducia. I suoi modelli agonistici? “Alberto Contador: ho avuto la fortuna di conoscerlo, lui mi piace molto”.
Doping permettendo. Nel ciclismo si è facili agli entusiasmi, che sono speranze. Aru è un bell’atleta, ha grinta, un sorriso aperto, uno sguardo da bravo ragazzo. Ha quasi ventiquattro anni. Non rovinatecelo, ho sentito dire dalla gente che urlava il suo nome. Se non sbaglio, è il primo ciclista della sua isola a conquistare una tappa del Giro. Quando ha cominciato col ciclocross, partiva il sabato in aereo, gareggiava la domenica e tornava in Sardegna la sera perché “dovevo studiare”. Si allenava dalle parti di Bologna e Vergato, dove è nato Alfonso Calzolari, il vincitore del Giro 2014. Gli chiedo se è parente di Ignazio Aru, “no”, risponde subito, “è di Pirri”. Igrazio correva ai tempi di Defilippis e Nencini. I tifosi sassaresi lo chiamavano il “piccolo Coppi sardo”. Da martedì, tappe da tregenda. Se saranno leggenda, vedremo. In greco, la radice “ar” significa, tra l’altro, superiorità. In quasi nomen, omen.