È ammantata di una sorta di grazia d’altri tempi la scrittura raffinata di Davide Longo, nato a Carmagnola e autore del recente romanzo Il caso Bramard, pubblicato questo mese da Feltrinelli. Tale grazia è presente non soltanto nella forma e nell’accurata scelta dei termini, ma anche nella descrizione dei luoghi (soprattutto di collina e di montagna), dei personaggi (e della loro psicologia) e nella capacità di mantenere l’attenzione del lettore costante senza trucchi e inganni ma, semplicemente, narrando una bella storia.
Il Bramard del titolo è uno strano personaggio, con un passato da commissario, che si è rifugiato tra i monti essenzialmente con due fini. Il primo è quello di dimenticare. Dimenticare un passato di sangue isolandosi, scegliendo di rispolverare la sua laurea e di fare il professore in una piccola scuola superiore di provincia. Il secondo è quello di ricercare, ogni giorno che passa, la sofferenza. Di inseguire il dolore fisico usando, come strumento di tortura, proprio la natura impietosa che lo circonda e che lo porta a sfidare ogni notte i suoi limiti fisici e psicologici. Da un lato è scappato dal dolore. Dall’altro non ha paura a ricercarlo ogni giorno perché potrebbe, finalmente, mettere fine alle sofferenze che si porta dietro e che lo dilaniano.
Il problema è che questo strano equilibrio che è riuscito, negli anni, a guadagnare, è alterato nel momento in cui il serial killer che, vent’anni prima, aveva cambiato la sua vita, e che aveva continuato a spedirgli lettere con strane frasi (espediente che ricorda i “quadretti” del primo romanzo di Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne), commette un errore. Questo errore, che presto si tramuterà in indizio, apre il lato investigativo del romanzo: è, infatti, sufficiente per riaprire il caso e creare una pista più solida che alimenta, ovviamente, il fiuto investigativo di Bramard.
Sono tre gli strati narrativi del libro, che dialogano molto bene tra loro e che il lettore individuerà da subito.
Il primo è un approccio psicologico: la figura di Corso Bramard è tutt’uno con i suoi incubi, con i suoi sogni, con le sue insicurezze, con il suo rapporto con il passato e con una famiglia sterminata ma anche con un disperato tentativo di uscire da una situazione tragica, tentativo che spesso fallisce anche a causa di un complicato rapporto con il “contorno” con cui si relaziona ogni giorno.
Il secondo strato è quello della natura e della montagna, davvero intrigante, con la descrizione, quasi in ogni pagina, dei luoghi che lo hanno accolto – concentrati attorno alla vecchia casa di famiglia – che sono un misto tra quiete, prigione e brutti ricordi e che sono popolati da strani personaggi che regalano simpatia o disprezzo.
Il terzo strato è la storia in sé, il thriller, il percorso investigativo, intramezzato da qualche scena d’azione, che porta pian piano verso la soluzione del caso e chiude, finalmente, ciò che era rimasto in sospeso.
L’atmosfera vintage del romanzo è interrotta, ogni tanto, da qualche “spolverata” di tecnologia (compresa l’apparizione di una giovane poliziotta-clone della Lisbeth Salander di Larsson) e da qualche parentesi di vita poliziesca.
Suggestive le scene dell’unione notturna tra Bramard e la montagna, tra condensa e insetti, tra animali che nascono e muoiono e l’abbaiare dei cani proveniente da rocce e alberi che, in un momento, gli sembrano bellissimi e in un altro solo luoghi freddi e tetri. Montagna da uomini soli, insomma: “Donne che possono capire questi posti come li capiamo noi non ce ne sono”, gli dice una guardia forestale nelle prime pagine.
Lo scalare la pietra gli permette di staccare la mente, di non pensare, e di vedere se, finalmente, il fisico cederà e gli farà dimenticare così i suoi incubi e la fatica di vivere. Un bar gestito da Cesare, un anziano con un cane malato e una parabola per prendere i canali arabi che trasmettono la danza del ventre, è il suo rifugio, tra carne di cinghiale a rosolare e caffè sempre in caldo sul fornello.
Il velo di disperazione che avvolge tutti i personaggi, dall’inizio alla fine, rende il libro originale, non banale e davvero piacevole alla lettura. Che la scena si svolga nella montagna, o negli uffici di polizia in città, o sulle strade tra appostamenti e indagini, nessuno dei protagonisti riesce a far dimenticare per un attimo al lettore la situazione complessiva di degrado che fa da sfondo a tutta la vicenda, e che conduce sempre più inesorabilmente verso il torbido.
È proprio questa serie di “imperfezioni”, di situazioni incompiute che ogni personaggio si porta dietro (dall’insegnante di sostegno in una scuola dove l’interesse degli studenti è sempre più debole sino al ricco possidente terriero anziano che sogna un futuro con una cameriera rumena, dal killer spietato ma che si commuove alla vista della figlia lontana alla poliziotta problematica costretta a lavorare in un ambiente sessista) che rendono l’opera dinamica e, quindi, interessante.
La parte investigativa e poliziesca, in un contesto così articolato, a volte passa in secondo piano, e maggiore è l’interesse per le vicende personali e per le relazioni tra gli individui, in una specie di ambiente pre-tecnologico fatto ancora di incontri e dialoghi di persona, di tempi e orari molto laschi scanditi dalla montagna e di misteri, soprattutto umani, mai semplici da risolvere.