Ogni tornata elettorale ha il merito di denunciare i limiti, l’inadeguatezza, la distorsione ottica con la quale noi giornalisti illustriamo la realtà. Anche questa volta è stato così: tre milioni di voti si sono diretti verso il simbolo di un partito, anzi hanno barrato un solo nome, quello di Matteo Renzi, senza che ce ne accorgessimo. Non ce ne siamo accorti noi giornalisti, che per mestiere abbiamo il compito di raccontare la realtà e non l’apparenza, non se ne sono accorti i sondaggisti, che hanno il compito di segnalare, intercettare, catalogare gli spostamenti dell’opinione pubblica, e non se ne è accorto nemmeno lui, Renzi, il maggior beneficiario di questo impegnativo e generoso dono, il destinatario di un voto di fiducia così straordinario nella quantità. Allo stesso modo ci accorgiamo ora che un altro esercito di persone, equivalente per numero agli abitanti della Danimarca, ha rinunciato ad esprimersi, si è sottratto alla possibilità di essere parte, contribuire a selezionare e formare una classe dirigente.
Questi due fatti, l’uno accanto all’altro, devono servirci a comprendere che la complessità di un Paese non è governabile attraverso Internet. La rete connetterà pure mondi lontani, e fornisce uno straordinario servizio alla conoscenza, permette di interagire, contrastare, conoscere in tempo reale, ma riversa le sue informazioni a chi la frequenta, usa questo strumento o da esso ne è sedotto. Lascia fuori invece una quantità di cittadini comunque enorme. Essi, coloro che non cliccano, non twittano, non commentano, scelgono poi di presentarsi ai seggi elettorali o anche no. E la loro scelta, che conta e si è visto quanto, ci coglie impreparati, stupiti, interdetti. Dobbiamo abituarci a usare di più il taccuino, le scarpe, battere le città e le campagne, aguzzare la vista e – magari – allungare lo sguardo oltre il nostro schermo, questa padella elettronica che ci consente di fare cose strabilianti ma ci nega, come è successo domenica scorsa, di vedere cose altrettanto strabilianti.