Dobbiamo risolvere una questione che ancora divide e fa discutere e che un giorno – chissà quanto lontano – forse considereremo del tutto residuale: è necessario che Matteo Renzi appaia di sinistra (che lo sia è persino una subordinata rispetto all’apparirlo), è indispensabile che si dica di sinistra, è fondamentale che dagli altri sia percepito come un leader di sinistra? Molto, di quel 40 per cento che lo ha votato, neppure si è posto il problema, lo ha votato per via di una disperazione evidente che intercettava nel nuovo arrivato un possibile sbocco al mare. Lo ha votato il nordest produttivo, anche una certa parte razzista che guarda solo agli ‘schei’ (i soldi), lo ha votato la Sicilia assistita, insomma lo hanno votato parti del Paese a cui la sinistra un tempo faceva sinceramente schifo. Ma lo hanno votato anche in tanti, quelli per cui l’essere fieramente di sinistra rappresenta un valore non negoziabile e che ancora oppongono l’orgoglio di appartenenza a qualsiasi compromesso al ribasso.
Con una certa onestà intellettuale, lo stesso Matteo Renzi ci aveva avvertito sin da subito sulla fragilità di una certa sinistra, dallo sguardo spento e totalmente concentrata sul proprio orticello, al punto da confessare apertamente che per vincere avrebbe mosso il suo attacco ai voti della destra perché la sinistra non bastava neppure a se stessa, con il che produrre una serie di alti lai, persino un po’ patetici, rispetto a una purezza della specie che andava difesa sino al tafazzismo più cupo. Un’operazione “scandalosa” e soprattutto sconosciuta a un certo modo di pensare vetero-borghese che invece rispondeva a una modernità politica, a una necessità di allargamento dei confini e non soltanto in termini strettamente politici.
Ma se già il primo “avvertimento” non fosse stato sufficiente, il secondo è stato addirittura spregiudicato e traumatico: convocare il pregiudicato al Nazareno e insieme a lui, condannato in via definitiva per frode fiscale, pensare alla nuova architettura dello Stato!
Rispetto a un certo modo di intendere la politica per schieramenti, per orgogli passati, per ideali contrapposti, e per tanto altro che abbiamo vissuto, questo del Nazareno è stato il vero passaggio che ha prodotto la prima, vera, lesione post-ideologica, la frattura tra un prima e un dopo, e cioè mettere in carico anche a sinistra una certa spregiudicatezza, una volgarità mai prima conosciuta, una visione cinica e liquidatoria che buttava finalmente in soffitta gli abiti vecchi del secolo passato per rimodellarli con dei nuovi panni da gagà.
In quel momento, effettivamente, è finito un certo modo di essere di sinistra – ed essere di sinistra nel ventennio berlusconiano – ed è cominciata una nuova epoca in cui i valori di un tempo si allontanano sullo sfondo e si fanno sotto quelli nuovi: la rottura con i sindacati, la lotta alle burocrazie, eccetera eccetera, insomma tutto l’armamentario renziano che abbiamo imparato a conoscere in questi 80 giorni.
Siamo al punto che, con un certo gusto del paradosso, potremmo mettere in carico a Matteo Renzi anche quel 16-17 per cento di quei disperati forzitalioti che si dedicano anima e corpo a quel che resta di Berlusconi, ma che senza l’ex Cav sulla scena, seppure ai ceppi, avrebbero volentieri votato un destrorso di sinistra come Renzi. E con quel 16-17 arrivare a un 57 plebiscitario da mettere anche un po’ paura, togliendo definitivamente ogni tratto distintivo sia alla sinistra che alla destra.
Il tempo definirà in modo molto più netto cosa vorrà dire ancora essere di sinistra o di destra o di centro o di chissà che cosa, anzi il tempo si incaricherà proprio di sottoporci il grande dilemma se abbia ancora un senso l’appartenenza politica per come l’abbiamo conosciuta nel mezzo secolo passato o non sia piuttosto un rimasuglio della storia. E saranno le nuove generazioni a determinarne i destini, attraverso passioni e profondità personali e collettive, giacché le nostre sono maturate in un tempo e in un contesto in cui scegliere era non solo doveroso ma necessario.