Un unico piano sequenza in Steadycam lungo 81 minuti, un film che prende insieme dal reportage e dal teatro per una nuova drammaturgia: si chiama speranza, umana prima ancora che geopolitica. Ma non tutto è a fuoco, non tutto è realistico, a meno di non essere Scalfari a colloquio con Papa Francesco: la giornalista protagonista intervista una famiglia allargata per un’ora e mezza senza registrare, mettendo solo due parole sulla moleskine e guardando più i muri che le persone. Misteri della fede o, se volete, certezza della memoria. Eppure, Ana Arabia del regista israeliano Amos Gitai è un pezzo di cinema destinato a durare, di più, a illuminare la tappe del processo di pace israelo-palestinese: “La ripresa continua, e il suo ritmo, vuole anche essere una specie di affermazione politica: i destini di ebrei e arabi di questa terra non saranno spezzati, non saranno separati. Al contrario, sono intrecciati e dovranno trovare un modo pacifico di coesistere, vivendo ognuno la propria vita e insieme nutrendosi gli uni con gli altri”.
Utopia? Chissà, ma se è possibile realizzare un intero film senza stacchi di montaggio come si può dividere la storia, come si può separare l’uomo dall’uomo (due popoli, due Stati…)? “Una volta – rammenta un personaggio – alla base di tutto c’era il rispetto: non importava essere arabi, ebrei, cristiani o beduini, si stava insieme”: dunque, oggi che è cambiato? Una giovane giornalista israeliana, Yael (Yuval Scharf, stile modella), raggiunge una bidonville di Jaffa per realizzare un reportage sulla famiglia di una donna: morta da poco, era sopravvissuta all’Olocausto e poi si era convertita all’Islam per sposare il palestinese Yussuf. Si chiamava Hanna Klibanov , ma per tutti era divenuta Ana Arabia, ovvero “io, l’araba”. Un caso limite, mutuato da una storia vera, ma Gitai non punta la camera sull’eccezionalità dell’exemplum, bensì sull’ordinaria accettazione che l’ha accompagnato in vita: il marito, la figlia, la nuora e i tanti vicini di quella bidonville-famiglia che siano le divisioni del mondo là fuori, che siano l’odio, la violenza, l’apartheid e il terrore proprio non lo sanno. Perché non lo vivono.
In quest’ottica, lo strano modus operandi della giornalista assume nuove prospettive, ulteriore pregnanza: sostiene in nuce Gitai, la convivenza di popoli, fedi, culture diversi non ha bisogno di scrittura, non ha bisogno di farsi storia, bensì di apertura al dialogo, ascolto. La Storia la scrivono i vincitori, e la mistificano tutti: sarà l’oralità a salvarci, senza fissare su carta differenze, ostilità e distinguo? Gitai ci crede, e affida Ana Arabia a bocca e orecchio, chi parla e chi segue, chi chiede e chi risponde: il taccuino può attendere, il reportage di Yael non entrerà forse nei Meridiani, ma può levare i paletti dalle coscienze, barattare la punteggiatura di mille trattati di pace disattesi con la sintassi elementare dell’incontro, del farsi prossimo. L’importante è recuperare la memoria, non per farne una retta spezzata, ma una circonferenza, un anello impermeabile al vulnus sociopolitico: la macchina da presa segue Yael per il cortile, dentro gli appartamenti, sosta e procede con lei, perché il cinema, questo cinema, non si muove senza l’umano, senza un cuore. Yussuf (Yussuf Abu-Warda), la figlia Miriam (Sarah Adler), Sarah (Assi Levy) e Hassan (Uri Gavriel) parlano, Yael e la camera ascoltano, e lo spettatore si trova in mezzo: non forza d’interposizione, ma catalizzatore di dialogo. Premio Bresson della Rivista del Cinematografo all’ultima Mostra di Venezia, Gitai chiede tanto al pubblico di Ana Arabia, ma a fin di bene: è quando chiediamo tanto a noi stessi che stiamo dando agli altri. Processo di cinema e processo di pace: si può fare?
Dal Fatto Quotidiano del 28 maggio 2014
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