Meglio un sussidio che il reddito di cittadinanza per combattere la povertà. Quest’ultimo porterebbe il 61 per cento degli aiuti a persone che non ne hanno bisogno. A dirlo è il Rapporto annuale dell’Istat 2014, presentato martedì 27 alla Camera dei deputati.
Per combattere le disuguaglianze, secondo l’istituto, l’Italia dovrebbe adottare uno strumento a sostegno delle persone che vivono con un reddito mensile inferiore ai 780 euro. Secondo l’istituto questa ricetta costerebbe un sesto rispetto a un eventuale reddito di cittadinanza individuale: ovvero 15,5 miliardi contro i 90 circa di quest’ultima ipotesi. Una misura simile in sostanza a quelle già adottate in Germania, Francia, Regno Unito e Spagna. Salvo che in Italia e in Grecia infatti, misure di legge contro la povertà sono presenti in tutta Europa. Era del 1992 la richiesta del Consiglio europeo, a tutti gli stati membri. di introdurre “un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri”.
In Italia, tre proposte, in forme diverse, sono state avanzate nel 2013 dal Movimento 5 stelle, dal Partito democratico e da Sinistra ecologia e libertà. Prima di allora ad affrontare in parlamento l’adozione di uno strumento simile al reddito minimo garantito era stato, nel 1998, il governo Prodi, con l’introduzione del Reddito minino d’inserimento. Una misura che prevedeva, in alcuni comuni italiani, in via sperimentale, integrazioni economiche e programmi di reinserimento personalizzato. Un progetto terminato nel 2004 e non rinnovato dall’allora governo di centrodestra. Quello stesso anno nella Finanziaria il governo Berlusconi creò il “Reddito di ultima istanza“, che doveva rappresentare una legge “generale di contrasto della povertà”. Le misure attuative però rimasero poco chiare e la Corte costituzionale mise fine al progetto, sempre nel 2004, ritenendo illegittime alcune disposizioni presenti nel testo.
Lo strumento che l’istituto, presieduto da Antonio Golini, consiglia di introdurre con il Rapporto annuale 2014 è un’imposta negativa sui redditi familiari: ossia un assegno vero e proprio, pari all’1 per cento del Pil, 15,5 miliardi appunto, e che assicura a una famiglia con due figli 1.638 euro al mese, 1.014 euro per un genitore con un unico figlio e 780 euro per un singolo. In questo modo, si legge nel Rapporto, “il beneficio medio per famiglia è pari a 12mila 175 euro l’anno per le famiglie molto povere (con meno del 20 per cento della linea di povertà) e decresce all’aumentare del reddito fino ai circa 2 mila 500 euro per le famiglie con redditi compresi fra il 60 e l’80 per cento della linea di povertà”.
Questo intervento, contenuto nel rapporto che denuncia l’Italia tra i Paesi europei con la maggiore disuguaglianza nella distribuzione dei redditi primari, crea una soglia di esenzione che, in sostanza, prevede un primo scaglione di redditi familiari che non solo non pagano imposte ma vengono anche integrati con assegno.
Nel Rapporto, l’istituto prende in considerazione e valuta anche il reddito di cittadinanza individuale. Uno strumento che dall’analisi dell’Istat appare più dispendioso e dispersivo. La misura consisterebbe infatti nel riconoscere un assegno dello stesso importo a tutti gli individui con reddito insufficiente: chi guadagna meno di 780 euro al mese riceverebbe quindi un integrazione che a livello nazionale arriverebbe a costare circa 90 miliardi di euro, pari al 6 per cento del Pil. In questo modo, “non essendo previsto un riferimento al reddito della famiglia di appartenenza del beneficiario, il 61 per cento della somma (55 miliardi) verrebbe percepita da individui che vivono in famiglie non povere”.