La memoria ha le gambe corte. Premesso che è doverosa e giusta la richiesta del risarcimento di 1,2 miliardi di euro da parte del ministero della Salute alle società svizzere Roche e Novartis per i danni causati al Sistema sanitario nazionale, non si può dire che il problema della speculazione delle case farmaceutiche sulla salute dei cittadini sia risolto. E certo non sarà neanche una multa dell’Antitrust (quella da 180 milioni di euro che i due colossi svizzeri si sono beccati lo scorso marzo) a impedire che Big Pharma continui a fare profitto sulla vita e la morte delle persone. Non è servito a nulla sanzionare nel 2012 la Pfizer di 10,6 milioni di euro per aver creato il monopolio del latanoprost, la molecola per la cura del glaucoma. Né costringere la ditta americana a risarcire lo Stato italiano sborsando 14 milioni di euro. Inutile anche la multa di 2,3 miliardi di dollari comminata nel 2009 dagli Stati Uniti per il Bextra, un antiinfiammatorio, poi ritirato dal mercato. A molto poco sono valse una serie di altre pene pecuniarie stratosferiche: quella da 1,4 miliardi di dollari alla Eli Lilly per aver messo in commercio illegalmente un antipsicotico, lo Zyprexa, con effetti dannosi (2009); quella da 950 milioni di dollari alla Merck per il Vioxx, un antiinfiammatorio con effetti collaterali sul cuore (2011); da 1,6 miliardi alla Abbott per l’uso non autorizzato del Depakote sui pazienti affetti da demenza senile e schizofrenia (2012); quella da tre miliardi alla Glaxo Smith Kline per degli antidepressivi anche questi non autorizzati dalla Food and Drug Administration (2012). Solo per citare qualche esempio.

Bisogna agire alla radice del problema. Quando un farmaco salvavita ha un costo proibitivo, la domanda da porsi non è in che modo punire l’azienda produttrice ma con quale criterio si costruisce il prezzo del farmaco. La questione cioè è a monte. In Italia funziona così: dal 1998 il prezzo di un medicinale innovativo (rimborsato dal Ssn) è assegnato in funzione del suo valore terapeutico, e non dal valore industriale, e dal 2004 si fa così per tutti i farmaci. Le case farmaceutiche stabiliscono il prezzo e l’Aifa prende o lascia, e difficilmente riesce a contrattare. Quindi il vero paradosso è che lo spreco di denaro pubblico o addirittura l’inaccessibilità alla molecola causati dai costi esorbitanti è legale. Il caso più recente è rappresentato dal nuovo antivirale contro l’epatite C, il Sovaldi (Sofosbuvir è il principio attivo) della Gilead Sciences. Costo: 50 mila euro per le 12 settimane di terapia prevista. Considerato che in Italia ci sono dai 300 ai 500 mila malati, la spesa a carico dello Stato si aggirerebbe intorno ai 25 miliardi di euro. In pratica, tutti quelli che oggi servono per l’intera spesa farmaceutica. Dopo le proteste delle associazioni di malati, l’Aifa ha promesso di trattare il prezzo con l’industria farmaceutica. È rimasta nel silenzio la battaglia degli oncologi di tutto il mondo contro il prezzo del Glivec, l’antileucemico della Novartis. Costo: 30 mila dollari a paziente per un anno di trattamento.

La corsa al rialzo esasperato dei prezzi è insostenibile. Se ogni volta che si scopre un antitumorale o un farmaco salvavita il Ssn deve sganciare cifre folli, non riuscirà più a garantire il diritto alla salute dei cittadini. Cosa accadrebbe invece se il prezzo fosse determinato dai costi di produzione e basta? Forse costerebbe almeno la metà.

Dovremmo tutti guardare Fire in the blood, il documentario del regista indiano Dylan Gray sui dieci milioni di morti in Africa per l’Aids a causa dell’alto costo del Diflucan (15 mila dollari per persona all’anno), il farmaco della Pfizer che avrebbe potuto salvare loro la vita. Ma la ditta, forte della complicità del Governo americano e dell’Oms, non ha mai fatto uno sconto a chi non poteva permetterselo. Se oggi nel continente nero si muore di meno per il virus Hiv è grazie alla ditta indiana Cipla che ha prodotto la stessa molecola a un prezzo accessibile. Noi potremmo essere il prossimo Terzo mondo.

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