Massimo Vignelli, scomparso lo scorso 27 maggio, era uno di quei Maestri che si impegnano a formare degli eredi, e il suo insegnamento in giro per il mondo non a caso è apprezzabile da chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la grafica degli ultimi quarant’anni. Architetto, comunicatore, grafico, designer, pur considerandosi troppo “utilitario” per fare arte, è stata una delle figure del design più vicine al miraggio dell’artista totale. Oltre a essere autore di icone che hanno fatto la storia occidentale (come il marchio Ford, il logotipo di United Colors of Benetton, di American Airlines, di alcune pubblicità Pirelli, del bianco e nero di Fratelli Rossetti e della ipercitata metropolitana di New York), e di progetti in cui ogni cittadino americano, magari ignorandolo, sarà inciampato prima o poi nella vita, Vignelli è stato un prolifico dispensatore di lezioni colte e intelligenti che sintetizzava massime lapidarie e memorabili, come se negli anni avesse scritto un testamento, a uso di noi tutti (designer e utenti). Molte le possiamo rileggere in una bella intervista pubblicata sul blog di Nicola Matteo Munari nel settembre 2013.
Ma forse la più acuta era già comparsa sul New York Times, in cui interrogato sul progetto che gli sarebbe piaciuto fare, rispondeva: “Un sistema di identità per uno Stato, per esempio il Vaticano. Andrei dal Papa e gli direi: Sua Santità, il logo va bene (con riferimento alla croce), ma tutto il resto va rifatto!”.
A sua volta cresciuto professionalmente dai Fratelli Castiglioni, aveva proseguito sotto i grandi italiani. Ma poi aveva scelto un’altra strada. Negli anni Sessanta, dopo un po’ di avanti e indietro con l’Italia, si era trasferito negli Usa contribuendo alla costruzione di un colosso per fama e prestigio come Unimark International, con sedi sparse in tutto il mondo (tra le quali quella italiana diretta da Bob Noorda, autore tra gli altri dell’immagine grafica della linea metropolitana milanese). Poi era nata la Vignelli Associati, in coppia, con Lella, moglie e socia, compagna e collega, che prima di Massimo, aveva scoperto l’America, laureandosi in architettura al Mit e divenendo poi cofirmataria dei tanti capolavori che in questi giorni stiamo riscoprendo anche in Italia, associandoli alla loro firma. Ma è negli Usa che sono stati messi a profitto con vero orgoglio per gli ultimi trent’anni, segnando con tutta probabilità anche la storia dei prossimi trenta e facendo della coppia Vignelli un’icona nazionale della modernità.
Alla morte Vignelli è arrivato da solo, solo con la sua battaglia lunga una vita per sconfiggere l’obsolescenza in nome di un’utopica atemporalità (famoso il suo motto: “Se lo fai bene, dura per sempre”). Perciò il figlio Luca nelle ultime settimane aveva lanciato la campagna “Dear Massimo” affinché chiunque nel tempo fosse venuto a contatto con Massimo gli lasciasse un messaggio: “Immagino montagne di borse piene di lettere. So che una delle massime fantasie di mio padre sarebbe stata quella di partecipare al suo funerale. Questa sarà la cosa migliore. Passate parola.” 117 sono le lettere giunte solo in calce al post di lancio più centinai di email e più di mille cartoline, molte delle quali con la scritta “urgente”.
Tra i mittenti famosissimi e gli anonimi allievi che lo ringraziano per l’attenzione e lo sguardo sempre rivolto al futuro, colpiscono le tante firme italiane di lettere scritte in inglese, probabilmente di quegli emigrati illuminati dal suo esempio, che come lui hanno finito per confondere le lingue. E infine il critico Ralph Caplan che lo ricorda così: “L’inglese era la sua seconda lingua; ma in un certo senso lo era anche l’italiano. La sua vera madrelingua era il design”.