Non so chi abbia mai pensato all’australiano Michael Rogers vincitore dello Zoncolan, il totem ciclistico della Carnia, l’arrivo più cattivo del Giro d’Italia, la montagna Kaiser delle due ruote coi suoi tornanti perversi, “la salita mito” come la definì Vincenzo Nibali, “la salita della mia generazione, una scalata verso il cielo che non finisce mai, dove tutti i campioni vorrebbero vincere”.
Francamente, nessuno. Lo stupefacente Rogers, infatti, non è uno scalatore. Ha trentaquattro anni suonati, è stato tre volte campione del mondo a cronometro, dal 2003 al 2005. Un verginello, nonostante l’età, di queste ebbrezze d’altitudine. Certo, è successo nella storia del ciclismo che grandissimi fuoriclasse – da Fausto Coppi a Jacques Anquetil – fossero straordinari nelle corse contro il tempo e altrettanto mirabili nei tapponi di montagna. Tuttavia, la differenza sostanziale è che Rogers non vanta alcuna vittoria con arrivi in salita o in tappe dalle squassanti altimetrie.
Un exploit agonistico, in una delle poche salite del Giro senza santuari o madonne a ispirare miracoli sportivi. È pur vero che in questo Giro del Risarcimento l’incredibile Rogers aveva trionfato un’altra volta, a Savona, giusto dieci giorni prima dello Zoncolan, il 21 maggio. L’impresa gli era riuscita non in salita. Bensì in discesa. Venti chilometri di picchiata, in una tappa corsa a medie altissime (249 chilometri ad oltre 43 all’ora). L’australiano voleva ridare smalto alla sua onorabilità, era stato appena riabilitato dopo essere stato trovato positivo al clenbuterolo, sostanza vietata. Rogers aveva fatto ricorso, sostenendo d’aver mangiato carne contaminata in Cina. Gli credettero.
Da giovane, Rogers è stato un ottimo pistard. E forse, proprio frequentando i velodromi, l’australiano che parla bene l’italiano (ha vissuto dalle parti di Como, ha sposato una ragazza lombarda) ha sperimentato le pendenze impossibili: nelle curve, infatti, l’inclinazione della pista arriva a 45 gradi, solo che sono sfruttate in genere tuffandosi dall’anello superiore della balaustra per sorprendere l’avversario… e tuttavia, scoprirlo all’attacco sulle rampe più ostiche del Giro affrontate per la quinta volta (la prima nel 2003, vinse Gilberto Simoni che si ripeté nel 2007, mentre nel 2010 fu il turno di Ivan Basso e nel 2011 dello spagnolo Igor Anton, oggi scudiero al servizio di Nairo Quintana) fa meditare.
Nelle gambe del passista Rogers c’erano già i veleni prodotti dal Passo del Pura (1428 metri), con pendenze rispettabili del 10-12 per cento. Il tempo di rifiatare nella discesa verso il lago di Sauris che la strada aveva ripreso a salire inesorabilmente in direzione della Sella Razzo, altri quindici chilometri in verticale (900 metri di salita e pendenze del 7-8 per cento). Altra lunga discesa, per arrivare alla Porta dell’Inferno, a Liariis di Ovaro.
Dei diciannove uomini in fuga, presto il drappello dei corridori in testa si riduceva a tre: gli italiani Francesco Manuel Bongiorno e Franco Pellizotti che ha forti radici da queste parti, la mamma è di Alta Terme, il papà di Paularo, cioè cuore della Carnia. Più Rogers, che sfoggiava una pedalata costante, fluida, tranquilla. Ma Pellizotti perdeva contatto. Scivolava indietro, senza però scoppiare. In alto, sotto al Cubo, l’arrivo della funivia dello Zoncolan, l’immensa folla aveva riempito i prati dei pascoli ancora in parte innevati. Tifo da stadio. E tifo anche becero.
Alcuni esagitati, senza essere bloccati dal servizio d’ordine che invece è stato assai più severo ed intransigente coi giornalisti, disurbavano la dolorosa ascesa dei corridori. Uno di loro spingeva maldestramente Bongiorno che era costretto a fermarsi. Stop fatale. Perché Rogers proseguiva, mica l’aspettava. Anzi, pareva imballato. Piano piano, riprendeva a pedalare, sforzo nello sforzo con la strada che pare un muro. Rogers solo al comando, conquistava il traguardo più ambito del Giro 2014. Bongiorno cedeva anche nei confronti dell’esperto Pellizotti. Rammarichi? “Sono cose che capitano, si vede che il tasso alcolemico era troppo alto…”. Rogers confessava: “Ho sempre sognato di vincere una tappa così”. Il suo direttore sportivo è Bjarne Rijs dichiarava che avevano programmato l’attacco nei minimi dettagli. Per chi ha scarsa memoria, rammento che Rijs, vincitore del Tour 1996, ha un sulfureo passato. Nel gruppo lo chiamavano Monsieur 60%, maliziosa allusione al suo elevato tasso di ematocrito. Mai pizzicato all’antidoping, nel 2007, durante una conferenza stampa, ammise di essersi dopato. Aggiunse che avrebbe restituito la maglia gialla. L’organizzazione francese gliela lasciò: erano trascorsi più di dieci anni, dunque il reato era prescritto.
Questa la corsa del vincitore di tappa.
C’è poi la corsa della maglia rosa e la non corsa dei suoi rassegnati avversari. Nairo Quintana ha mandato in cima al gruppetto dei migliori i suoi uomini per evitare sorprese. L’amico Rigoberto Uran Uran lo ha affiancato e assecondato: avevo ragione nel dire che era il suo alleato in corsa. Un podio colombiano difeso con astuzia. Quanto a Fabio Aru, ha pagato lo sforzo della cronoscalata e non ha saputo reagire all’allungo di Quintana ed Uran. Per sua fortuna, anche il francese Pierre Rolland era alla frutta. Sebbene non in perfette condizioni fisiche (“In corsa il muco mi intasava le narici e la gola”), il colombiano ha dimostrato non solo di essere il migliore, ma di non avere avuto avversari alla sua altezza. Poteva forse esserlo Joaquim Rodriguez, ma la maxicaduta di Montecassino lo ha messo ko. Fabio Aru è acerbo agonisticamente. Ha grandi potenzialità in salita, è forte ma non abbastanza: “Dagli tempo, dagli tempo”, mi dice Gianni Savio (manager dell’Androni Giocattoli-Venezuela), navigato conoscitore dei colombiani e dei giovani emergenti.