Capitale nel Ventunesimo Secolo è un invito a tornare a parlare di disuguaglianza. Un invito che si deve cogliere con entusiasmo. Riassumerò brevemente le tesi di Piketty e le critiche più importanti che gli sono state mosse, formulando in conclusione una riflessione sull’importanza del suo lavoro. L’argomento centrale di Capitale nel Ventunesimo Secolo (per chi vuole saperne di più ho scritto una sintesi del libro) è che la disuguaglianza è destinata a crescere indebolendo le democrazie liberali (se non si interverrà tassando la ricchezza a livello globale).
La crescita economica e la diffusione della conoscenza avrebbero contribuito in modo determinante a ridurre la polarizzazione di reddito e ricchezza fino alla fine degli Anni Settanta. Tuttavia, con il crollo del fordismo, lo scenario è cambiato radicalmente. Ci troveremmo ormai in una situazione simile a quella del diciannovesimo secolo, con il tasso di ritorno del capitale che viaggia costantemente su livelli superiori a quelli della crescita economica. Per questa ragione, chi detiene capitale continuerà ad accumulare ricchezza a spese di chi vive di lavoro. In parole povere, lo strapotere della rendita sul lavoro.
A questo Piketty aggiunge che, difficilmente nelle prossime decadi il tasso di crescita dell’economia riuscirà a superare quello della remunerazione del capitale. Questo è un grido di allarme per chi crede che la polarizzazione della ricchezza nelle mani di pochi sia un problema di giustizia sociale ed efficienza economica. La causa primaria di questa inversione di tendenza negli ultimi trent’anni sarebbe la scelta di deregolamentare i mercati finanziari e ridurre la tassazione sulla ricchezza.
L’economista francese propone di invertire la tendenza imponendo una tassa progressiva e globale sulla ricchezza. Tralasciando quanto realistica sia quest’opzione (molti dubbi possono essere sollevati), l’idea di monitorare la ricchezza in modo più stringente servirebbe comunque a rendere più trasparenti stati e banche. Credo come Piketty, che una società più giusta si possa costruire solo avendo a disposizione informazioni adeguate sul livello di polarizzazione della ricchezza. Informazioni che al momento non abbiamo. Lo studio sulla polarizzazione della ricchezza di Piketty, infatti, si basa esclusivamente su complesse stime indirette (proprio a causa dell’opacità dei sistemi bancari).
È proprio sui dati utilizzati nel libro che si è aperta una querelle tra il Financial Times e Piketty. Il quotidiano inglese ha accusato l’economista di aver commesso errori nell’analisi che inficerebbero le conclusioni che ho appena descritto. Andiamo con ordine. Ci sono due tipologie di critiche che sono state mosse a Piketty in questi mesi: quelle di carattere sostanziale e quelle di carattere tecnico.
A livello sostanziale, Piketty è stato criticato per non aver sufficientemente tenuto conto della teoria economica esistente e per aver tratto conclusioni molto forti non suggerite dalla sua evidenza empirica. Vediamo in dettaglio perché.
1) Piketty prende per buona la definizione neoclassica di capitale (pur essendo stato sorprendentemente definito il nuovo Marx dall’Economist). L’economista francese si focalizza sul capitale finanziario ignorando quello fisico. La sua visione del capitale sarebbe meccanica, impedendogli di analizzare in profondità le cause che stanno portando alla polarizzazione della ricchezza. Per questa ragione la spiegazione delle cause della crescita della disuguaglianza non terrebbe conto delle dinamiche complesse che regolano la relazione tra capitale e lavoro (sul tema vedi l’articolo di Galbraith)
2) Sulla base della prima critica se ne può desumere, che forse la tassa globale sulla ricchezza non basterebbe a ridurre in modo fondamentale la disuguaglianza. Servirebbero, infatti, anche altre politiche di sostegno al reddito (come per esempio il reddito minimo) e di universalizzazione del welfare tornando a investire in quei servizi che riducono la disuguaglianza: istruzione e sanità prima di tutto (sul tema vedi Harvey).
3) Non è detto che il trend identificato da Piketty negli ultimi trent’anni debba perpetuarsi, la tendenza potrebbe essere invertita dalle forze del mercato stesso (personalmente ne dubito).
A queste critiche di carattere sostanziale si è aggiunta quella tecnica di Giles sul Financial Times. Secondo il giornalista, Piketty ha sovrastimato la disuguaglianza in Inghilterra e questo inficerebbe la sua analisi. Tuttavia Giles, non ci spiega: 1) come è possibile che nei suoi dati la polarizzazione della ricchezza è più alta in Svezia rispetto all’Inghilterra (questo dato fa a pugni con decadi di ricerca comparata sulla distribuzione del reddito e della ricchezza)? 2) perché dei dati governativi (sui quali l’evasione fiscale influisce in modo molto più marcato) sarebbero più attendibili di quelli usati da Piketty per comparare l’Inghilterra agli altri paesi presi in esame? Per chi vuole approfondire, consiglio di leggere cinque analisi che smontano pezzo per pezzo le critiche di Giles: Paul Krugman sul New York Times , Cassidy sul New Yorker ed udite, udite i pericolosi sovversivi dell’ordine neoliberale Forbes (l’articolo migliore a mio avviso e l’Economist).
In conclusione Capitale nel Ventunesimo Secolo, come ogni lavoro ‘umano’ contiene imperfezioni e punti critici. Dal mio punto di vista occorre sviluppare, in lavori futuri, l’analisi del nesso fra crescita della disuguaglianza e smantellamento dello stato sociale. Non basterà una tassa globale per curvare le storture del capitalismo finanziario. Tuttavia, al netto delle umane imperfezioni, il lavoro di Piketty, con la sua accuratezza e leggibilità costituisce uno spartiacque: quello del grande ritorno della discussione sulla disuaglianza. In questi anni molti libri hanno ripreso la discussione, da Stiglitz a Wilkinson, ma la metodicità di Piketty era quello che serviva per infiammare l’arena pubblica.
Piketty ha il merito indiscusso di aver portato alla ribalta la giusta domanda. Una domanda che gli economisti più influenti hanno ignorato per anni: vogliamo vivere in una società basata sulla rendita o sul lavoro? Piketty ha posto questa domanda mettendo i numeri e l’analisi economica al servizio dei più poveri. È questo merita riconoscenza. La battaglia per rendere la società più egualitaria è lunghissima, ma sono libri come quello di Piketty che ci aiuteranno a vincerla.